la Repubblica, 14 febbraio 2018
Turchia crocevia del metano. Il grande risiko per aggirare la nuova egemonia di Ankara
Milano Roma Bisogna spalancare la cartina geografica, seguire le tracce dei tubi con il dito, per capire come l’ambizione italiana di diventare lo snodo europeo del gas si scontri sempre più con le mire di Recep Erdogan. È la sua Turchia il crocevia da cui oggi passano alcune delle principali rotte del metano verso l’Unione. Sempre lui, attorno alla questione siriana, ha saldato un legame con Putin basato anche su nuovi gasdotti alimentati dalla Russia che approderanno in Anatolia. Ed è lui che cerca di bloccare le trivelle Eni a Cipro, in un crescendo di pressioni in atto da cinque anni sui dirigenti italiani: ai tempi dello sbarco nell’isola (2013) ricevettero, si racconta, i moniti dell’ambasciatore turco in Italia, blandendo le sue minacce di intervento armato. Ora invece le navi son partite, in una prova di egemonia sui tesori del Mediterraneo orientale che “il Sultano” coltiva anche opponendosi a EastMed, il gasdotto che vorrebbe agganciare i nuovi giacimenti israeliani e ciprioti direttamente con l’Europa, via Grecia e Italia. Aggirando così la Turchia.
Un’idea ambiziosa: 1.300 chilometri di condotta sottomarina, la più lunga mai costruita nel Mediterraneo. E con costi notevoli, superiori ai 10 miliardi di euro. Difficili da sostenere alle attuali quotazioni del gas: a meno di sovvenzioni europee, su cui la parte greca di Cipro apertamente spera. Per questo l’intesa firmata lo scorso aprile a Tel Aviv dal ministro dello Sviluppo Carlo Calenda con gli omologhi israeliano, cipriota e greco è tutt’altro che un inizio di lavori. La decisione definitiva dipende dalla disponibilità dell’Ue ad aprire il portafogli, e sarà presa nel 2020. Con l’entrata in attività verso il 2025.
Eppure questa è una delle poche direttrici verso l’Europa che non preveda nei tubi il gas di Putin – sempre più copioso perché a buon mercato -, o un transito nel giardino di Erdogas, come viene ormai chiamato nel settore idrocarburi. A Nord stanno per iniziare i lavori di raddoppio del Nord Stream, gasdotto baltico targato Gazprom che porta il metano russo in Germania, tagliando fuori Repubbliche baltiche e Polonia. E pure a Sud la Russia prepara un raddoppio. Al Blue Stream che dal 2005 collega la sua sponda del Mar Nero alla turca – proprio, ironia, grazie all’abilità di Saipem ed Eni, che ancor oggi ne possiede il 50% – Putin e Erdogan stanno affiancando il Turkish Stream, che dovrebbe partire a fine 2019. Sempre tra i tubi di cui Erdogas controlla le valvole, più a Sud corre il Tanap, la direttrice che porta gas azero verso la Grecia e dal 2020, con il nome Tap, approderà in Puglia. Un gasdotto su cui, ha rivelato l’Espresso, diversi familiari di Erdogan avrebbero interessi economici diretti. Ma la Turchia ha anche intrecci di condotte con l’Iran, sull’inatteso asse sunnita- sciita creato dalla guerra in Siria. La repubblica iraniana è prima al mondo per riserve di metano: se mai iniziasse a venderlo in Occidente potrebbe farlo via Ankara. Così come Israele, se l’ambizioso EastMed restasse sulla carta. Con i giacimenti Leviathan e Tamar il Paese diventerà esportatore netto di gas e ha bisogno di compratori: così oltre al gasdotto mediterraneo ne progetta uno verso la Turchia, più corto e meno costoso.
Un mosaico in movimento, tra interessi geopolitici e commerciali. L’Italia, che importa oltre il 90% del gas bruciato, ha segnato un punto a favore con l’avvio da parte di Eni del maxi giacimento egiziano di Zohr, il cui metano in prospettiva potrebbe anche confluire in East Med. Ma il nuovo bacino dorato di Levante ora rischia una battuta di arresto davanti al neo imperialismo energetico di Erdogan, sempre più arbitro delle forniture e rivale dell’Italia nel ruolo di “hub del gas”. Anzi, i prezzi bassi della materia prima potrebbero favorire uno stallo politico sine die sul dossier Cipro: «Penso che nessuno abbia particolare fretta di produrre il gas cipriota, anche perché a meno di immensi ritrovamenti sarà vendibile in Europa a prezzi competitivi solo grazie a sovvenzioni dell’Ue dice Massimo Nicolazzi, ex di Eni docente di Economia delle fonti energetiche a Torino -. Per questo mi pare più ragionevole che gli operatori ora si fermino un giro e il dossier torni al tavolo della politica europea».