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 2018  febbraio 14 Mercoledì calendario

I segreti di Natalia Ginzburg corsara che raccontò la vita


Una sola cosa Natalia Ginzburg voleva fare, da sempre e per tutta la vita: scrivere. Sin da bambina, quando era la più piccola, messa a tacere in quel microcosmo dove tra i più grandi risuonava il lessico famigliare fatto di «sempi» e «sbrodeghezzi», «potacci» e «malagrazie»: scrivere. Attraverso romanzi, ricordi, racconti, articoli, traduzioni, lavori teatrali: ma scrivere, sempre. 
Nel ritratto che le dedica Sandra Petrignani in un libro intitolato La corsara, ora in uscita per Neri Pozza, emerge come la scrittura sia stata il luogo mentale e fisico in cui Natalia Ginzburg poteva raccontare la vita dove «si annidavano i segreti». Cioè ovunque, in qualsiasi tempo, in tutte le città dove ha vissuto, in tutti gli amori che ha conosciuto, gli amici che ha frequentato, i (numerosi) lutti che ha patito, i libri che ha scritto. I segreti che si annidano implacabilmente in ogni frammento dell’esistenza, e che lei sapeva decifrare con un istinto magico, come una rabdomante che trova nascoste vene d’acqua nel terreno. Il segreto delle cose racchiuso nel cuore di una famiglia. Nel dolore che non si riesce a dire. Nel tipo di abiti che si indossano e nelle «scarpe rotte» che ci si ostina a portare. Nel generare i figli o nel riconoscere i figli che non sono i tuoi e che tratti come se fossero tuoi, senza che il mondo lo sappia. Il segreto di una donna che non voleva essere ingabbiata negli stereotipi sentimentali della letteratura al femminile, ma che aveva, come ha scritto il suo grande amico Italo Calvino, un suo «modo di essere donna, spesso dolente ma sempre pratico e quasi brusco, in mezzo ai dolori e alle gioie della vita». Un suo peculiare modo di essere che ci viene restituito in questo libro di Sandra Petrignani, denso di racconti e di informazioni preziose. 
Un ritratto, che è cosa diversa da una biografia. Una biografia accumula fatti, documenti e testimonianze con uno scopo di completezza e di quasi neutra esaustività. Un ritratto è invece il racconto di ciò che è di più caratteristico e personale di un essere umano e di una scrittrice, per ritrovare la sua anima profonda. E il ritratto che Petrignani disegna su Natalia Ginzburg è appunto la ricostruzione di quel tessuto di segreti che connota la personalità di una delle due più grandi scrittrici del secolo scorso (l’altra è l’amica-rivale Elsa Morante).
Scorrono in questo ritratto le persone e gli intellettuali che hanno costruito e rappresentato il mondo di cui Natalia Ginzburg è stata decisiva e spesso non riconosciuta parte propulsiva. Cesare Pavese, prima di tutto, cui la Ginzburg dedicò uno straziante e formidabile «Ritratto di un amico», poi raccolto nel libro Le piccole virtù. Giulio Einaudi e la banda degli einaudiani, in primis Calvino, l’altra famiglia di Natalia Ginzburg e non solo per il ruolo di «coscienza morale» (la definizione è di Norberto Bobbio) ricoperto da Leone Ginzburg, anche lui custode di un segreto personale che Sandra Petrignani racconta con ammirevole delicatezza, nella fondazione della casa editrice. Ma perché la Ginzburg sentiva imprescindibile quel senso di impegno comune, di comunità intellettuale, di lavoro organizzato sulla base di uno scopo condiviso, in cui si mescolavano affetti, amicizie, passioni e anche scontri furibondi che hanno caratterizzato il «suo» mondo einaudiano, malgrado i rapporti talvolta tempestosi con Giulio Einaudi, dove la ragione economica, mancati pagamenti soprattutto, a un certo punto, nel cuore degli anni Ottanta, avrà il sopravvento.
Persone come Cesare Garboli, agli antipodi caratteriali rispetto a lei: lui sfolgorante e seduttivo nel suo dandysmo intellettuale, lei seria, seriosa, così poco alla moda. Persone come Elsa Morante, con cui il rapporto restava saldo anche quando la Morante non poteva fare a meno di criticare l’amica se era in disaccordo con le sue opere teatrali, a cominciare da Ti ho sposato per allegria. 
Persone che erano amiche e sodali di Natalia Ginzburg ma che lei non esitava ad attaccare pubblicamente anche con una certa ruvidezza, come Alberto Moravia e Bernardo Bertolucci. Salvo restare amici, criticandosi aspramente ma amici, scrivendo stroncature ma amici, con un atteggiamento che oggi sarebbe impossibile, dentro, come siamo, a un mondo intellettuale suscettibile e rancoroso, dove un semplice aggettivo non gradito può essere causa di rotture e reazioni immusonite per sempre.
Persone come Felice Balbo, a cui Natalia Ginzburg delegava il ruolo di maestro e guida nelle scelte politiche: con lui nel Partito comunista, con lui fuori dal Partito comunista, come lei stessa ha ammesso con candida sincerità. La sincerità di una scrittrice che in politica prese posizioni talvolta discutibili e finanche faziose (spicca la macchia del suo commento gelido alla strage di atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco), ma essendo perfettamente cosciente che la politica non fosse il suo territorio familiare. Eppure quel modo «brusco» e apparentemente ingenuo di affrontare le cose della società e della politica danno alla scrittura della Ginzburg polemista un timbro inconfondibile: da «corsara» come suggerisce il titolo rievocando la figura di Pier Paolo Pasolini. Persone come il secondo marito Gabriele Baldini, così diverso da lei eppure così affascinante. E la casa romana in cui la targa diceva «Natalia Baldini» come a compensare il «Natalia Ginzburg» conservato nelle sue opere dopo la morte del marito Leone.
Colpisce nel ritratto di Sandra Petrignani la genesi dei libri più riusciti di Natalia Ginzburg. A cominciare ovviamente da Lessico famigliare, un unicum nella storia letteraria italiana, in cui la narrazione di un ambiente e di una famiglia, è uno spicchio di mondo (oramai scomparso) che parla in modo singolarmente «universale», come se scrivendo del «suo» universo, riuscisse a comunicare qualcosa di fondamentale su quello di tutti noi. Per arrivare a Caro Michele, in cui il senso dello sfilacciamento di una famiglia e di un’umanità viene raccontato con un rammarico che lascia stordito chi legge. 
E chi legge il ritratto di Sandra Petrignani non potrà non restare stordito dal racconto della grande passione, travolgente e poi dolorosa, con Salvatore Quasimodo (non dolorosa per Giulio Einaudi, però, che usò la Ginzburg come «tramite per convincere Quasimodo a tradurre Neruda per lo Struzzo»). O dal racconto del rapporto intenso con il figlio Carlo, a cui la madre mandava sempre in anteprima i suoi lavori ricevendone in cambio giudizi severissimi, salvo poi pubblicarli così com’erano, incassando la severità ma senza lasciarsene impressionare. O il racconto del suo rapporto con la figlia Susanna, sfortunata e struggente. «Ovunque si annidavano segreti»: questo con la figlia il più doloroso.