il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2018
Non si può più tagliare la spesa pubblica: lo dicono i dati
La sintesi, seppure con i toni felpati che si devono all’istituzione, è eloquente: la situazione italiana non permette più ulteriori tagli alla spesa pubblica senza che lo Stato debba rinunciare a determinate prestazioni sociali. È l’aspetto più emblematico dell’ultimo rapporto pubblicato ieri dell’Ufficio parlamentare di bilancio, una sorta di authority dei conti pubblici introdotta con il Fiscal compact, il trattato che negli ultimi anni ha imposto l’austerità di bilancio ai Paesi europei a più alto debito.
Il report analizza le prospettive della finanza pubblica nel prossimo triennio restituendo l’immagine di un gioco a incastri in cui l’equilibrio sembra garantito da numeri ballerini. Come noto, il governo ha programmato una nuova stretta fiscale che dovrebbe azzerare il deficit e portare al pareggio di bilancio (il saldo zero tra entrate e uscite dello Stato inserito nella Costituzione) nel 2020 grazie agli aumenti automatici dell’Iva per oltre 30 miliardi (le “clausole di salvaguardia”). Significa – ricorda l’Upb – che l’Italia aumenterà ancora il suo “avanzo primario”, il saldo positivo tra quanto lo Stato spende e quanto incassa: è l’unico Paese dell’Ue, insieme alla Germania, ad averlo mantenuto sempre nell’ultimo decennio. In tre anni passerà dall’1,7% al 3,3% del Pil: si chiama austerità. Il guaio è che, oltre a deprimere la crescita, non basta a rispettare le regole Ue. L’authority ricorda che per il 2017 la Commissione ritiene che l’Italia non sia in regola e così anche per il 2018. Quasi certamente Bruxelles chiederà una nuova manovra correttiva da 3 miliardi, anche se molto dipenderà dall’esito delle elezioni.
E veniamo al problema. Trovare le risorse evitando anche di far scattare le clausole sull’Iva ma rispettando le regole Ue richiederebbe ulteriori tagli. Per l’Upb non è possibile perché si è raschiato il fondo. La spesa pubblica italiana è già inferiore alla media degli altri Pesi europei. Quella per il pubblico impiego, grazie al blocco di contratti e turnover dal 2012 è calata negli ultimi 6: servirebbero invece “assunzioni aggiuntive considerato che le manovre correttive dell’ultimo decennio hanno portato un calo rilevante della dotazione di persone e un invecchiamento notevole degli addetti”, ma anche risorse (1,2 miliardi) per il rinnovo del contratto di Enti locali e sanità. Stando ai dati della Ragioneria di Stato – ha ricordato ieri la Fp Cgil – nell’ultimo decennio si è perso il 7,2% della forza lavoro (246 mila statali). Dinamica simile per la spesa per consumi intermedi, di cui la metà è spesa sanitaria. Per quest’ultima, “già tra le meno elevate in proporzione al Pil rispetto ai maggiori Paesi europei – scrive l’Upb – ulteriori tagli avrebbero effetti sulla qualità di servizi offerti o sul perimetro dell’intervento pubblico”. Tradotto: per tagliare ancora bisogna ridurre le prestazioni. Idem per la spesa pensionistica. C’è poi il capitolo investimenti pubblici, schiantati dalle manovre degli ultimi anni (-30%): “Appare improbabile – si legge – che tale voce continui a contribuire ai contenimenti del Pil” anzi, “la loro ripresa sarebbe auspicabile da un punto di vista economico e sociale, considerate le carenze infrastrutturali, incluse quelle del settore sanitario e scolastico”. Tirate le somme, la sintesi è limpida: “Solo attraverso interventi selettivi sarà possibile ottenere ulteriori contenimenti in voci di spesa che già mostrano una riduzione in rapporto al Pil da anni” e i risparmi dovrebbero andare ad altri settori della Pa in crisi.
Significa che nessuna spending review da decine di miliardi è possibile né auspicabile. Tagliare “70 miliardi di sprechi” come propone il M5S, per dire, è inverosimile, così come ipotizzare il congelamento della spesa ai livelli del 2017, come proposto da +Europa (alleata del Pd): tenerla ferma, con Pil e inflazione in crescita, significa tagliare. Pure la riduzione del debito grazie anche a “dismissioni immobiliari” da 4-7 miliardi l’anno proposta dal Pd è impossibile: secondo i dati dell’Upb in media non si è mai andati oltre 1,2 l’anno (nel 2015-2016 anche meno). L’unica spesa “aggredibile” sono le agevolazioni fiscali, ma significa alzare le tasse e politicamente è complicato.
Già il quadro attuale, peraltro, si tiene a stento. L’Upb ricorda che le previsioni di una riduzione della spesa per interessi non scontano rischi sui tassi. Alcuni numeri appaiono poi inverosimili, come la spesa per il personale che nel 2018/20 è prevista calare (o la pressione fiscale che scende mentre salgono Iva e avanzo primario). Ma il vero nodo è sulle clausole di salvaguardia: finora il governo le ha congelate in deficit, ma a Bruxelles non sembra tirare più aria di concessioni. A giugno la Commissione, in scadenza, entrerà in una sorta di semestre bianco in vista delle elezioni europee del 2019. L’anno scorso il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan aveva aperto a un aumento parziale poi negato da Matteo Renzi (non è un caso che Pd non menzioni un nuovo stop alle clausole nel programma elettorale). L’Italia sarà di fronte a un bivio.