La Stampa, 14 febbraio 2018
Il senso di Pita Taufatofua per la neve. Il tongano e lo show a torso nudo come a Rio
Pita Taufatofua ha la faccia da modello, il corpo lo abbiamo già visto in mondovisione almeno un paio di volte. Pita è quel pezzo di ragazzo tongano che sia a Rio sia a PyeongChang ha sfilato con i costumi tradizionali del suo Paese. Un gonnellino e poi come mamma l’ha fatto. Spalmati di olio di cocco, in quegli addominali ti potevi specchiare. Pita è diventato una star, due anni fa ai Giochi di Rio era un atleta di taekwondo, in Corea invece fa il fondista, 15 km a tecnica libera. Cominciamo da qui e riavvolgiamo il nastro di una vita avventurosa.
Pita, perché il fondo dopo il taekwondo?
«Perché un giorno mi sono detto, qual è la disciplina più dura del mondo? E ho scelto il fondo. Certo, avrei potuto dedicarmi anche alla discesa, ma ho avuto problemi alle ginocchia».
A Rio invece il taekwondo: allora che domanda si era fatto?
«Nessuna, lo pratico da quando ho quattro anni, mi portò mia mamma alla prima lezione. Il taekwondo ce l’ho nel sangue, anzi è il mio sangue. Ma come uno che ha una casa e ne vuole una seconda altrove, io volevo cimentarmi con un’altra disciplina».
Nella cerimonia inaugurale la sua sfilata è stata uno spettacolo nello spettacolo. A Rio, ma ancora di più, visto il clima, a PyeongChang. Come le è venuta l’idea?
«A Tonga non abbiamo vestiti invernali. Anzi, non abbiamo proprio l’inverno. Ho sempre avuto l’intenzione di sfilare così, se i miei antenati sono stati in grado di attraversare il Pacifico senza informazioni o procurarsi cibo con le loro mani per sopravvivere, non vedo perché io non avrei potuto stare 25 minuti a torso nudo».
Che cosa si aspetta dalla gara olimpica?
«Non mi sono mai cimentato con una distanza simile. La 10 km per me è difficile, la 15 è ai limiti dell’impossibile. Voglio finirla. Io combatto solo contro me stesso. Ai Giochi ci sono tre persone che vincono la medaglia, ottanta che ci provano e non ci riescono e 80 milioni che neanche ci provano. Sono la voce di quegli 80 milioni».
Come se la immaginava la neve?
«Soffice. Poi quando l’ho vista per la prima volta ho scoperto che poteva essere anche pesante, bagnata, ghiacciata».
Come e dove si è allenato?
«In Australia, sulla spiaggia».
Posto tipicamente invernale.
«Ho trovato un paio di ski roll, gli ho applicato delle tavolette di legno e ho cominciato a correre sulla sabbia per trovare l’equilibrio. E poi tanto YouTube per vedere i veri sciatori».
A che età ha cominciato a sognare le Olimpiadi?
«Avevo 12 anni e come tanti bambini ero lungo la strada per applaudire Paea Wolfgramm, argento ad Atlanta, unica medaglia olimpica nella storia di Tonga. Fu accolto come un eroe. Lì ho deciso che sarei dovuto andare anche io ai Giochi».
Chi erano i suoi idoli sportivi da bambino?
«Bruce Lee. Non è uno sportivo? Questo lo dice lei. Poi Mohammed Ali, Mike Tyson e i campioni delle arti marziali».
Ma dove è cresciuto?
«Sono nato in Australia, poi abbiamo raggiunto Tonga. Il nostro sangue arriva da lì e dalle Fiji». Il viaggio è finito. Pita Taufatofua, se non ci fosse bisognerebbe inventarlo.