La Stampa, 14 febbraio 2018
Verdi fratello d’Italia
Da artista, Verdi raccontò sempre gli italiani. Non bisogna farsi ingannare dai loro pittoreschi travestimenti sulla scena. Chi indossa quei costumi favolosi sono gli italiani di sempre, siamo noi. Le relazioni familiari, il ruolo della donna, le prevaricazioni del potere, gli amori socialmente impossibili dell’Italia di ieri e di oggi e magari anche di domani: nelle opere verdiane vengono raccontati senza sconti, illusioni e autoillusioni.
Verdi diventa Verdi con la sua terza opera, Nabucodonosor, poi per fortuna abbreviato in Nabucco, nel 1842 alla Scala. Si è sempre detto che per lui gli ebrei che piangono la Patria sì bella e perduta nell’esilio Babilonia erano gli italiani dell’epoca, anche loro senza patria. Probabilmente non è vero, perché per il Verdi ventottenne, con una coscienza politica ancora da fare, gli ebrei erano ebrei, la loro patria Israele e la sua il ducato di Parma e Piacenza (la censura austriaca, evidentemente, la pensava così, se non fece obiezioni). Ma allora non si capisce perché non si possa dire che il Riccardo del Ballo in maschera è il classico vitellone da bar, incapace di crescere finché la scoperta dell’amore non l’obbliga a farlo, o la prima scena del Rigoletto un clamoroso «bunga bunga» sullo sfondo della cena elegante di qualche potente. Non è leso Verdi: significa, semplicemente, svelare quel che di reale c’è dietro quella fiction così clamorosamente improbabile (…).
Questo non vuol dire affatto che il teatro verdiano non sia universale, anzi è uno di quelli che lo restano tuttora di più. La sua diffusione è planetaria. Le statistiche sono lì a certificarlo.
Mondiale e provinciale
Secondo il formidabile sito www.operabase.com, Verdi è l’operista più rappresentato al mondo, 16.265 recite nel lustro che va dalla stagione 2011-2012 a quella 2015-2016. Ma il suo teatro è universale proprio perché affonda le radici nel suo vissuto e fra la gente che Verdi conosceva meglio. Si chiamava Giuseppe Verdi, non Joe Green. In fin dei conti, per farsi travolgere da Shakespeare non è indispensabile essere inglesi e nemmeno conoscere le vicende della guerra delle Due rose (complicatissime, del resto).
Se, dunque, Verdi si muove su questo doppio registro, universale e particolare, cosmopolita e nazionale, mondiale e provinciale (l’opera italiana è stata uno dei primi fenomeni di show business globale molto prima della globalizzazione), questo libro ambirebbe a fare il punto su quanto di italiano ci sia, come personaggi, situazioni e perfino mentalità, in quest’altissima arte che ha conquistato il mondo travolgendo ogni barriera di nazionalità, età, classe sociale, livello culturale. Alla ricerca di un’italianità di Verdi che è un vero spaccato sociologico, anche duro, spesso impietoso, sempre lucido, non solo la retorica trita del Verdi arcitaliano infinite volte ripetuta, e sempre più vuota man mano che la si ribadiva, fino a ridursi a una specie di versione lirica del luogocomunismo nazionale, modello «l’Italia è il Paese più bello del mondo»; «vuoi mettere qualsiasi cibo rispetto agli spaghetti di mammà»; «l’opera come la facciamo noi non la sa fare nessuno e poi si sa che alla fine i tedeschi li freghiamo sempre». Magari in versione patriottica, alla viva V.E.R.D.I., ignorando (o fingendo di ignorare, il che è peggio) che gli italiani, nelle opere di Verdi, fanno sempre o quasi una triste figura, e che descriverli non vuol dire assolverli. È una retorica appiccicaticcia, che mette insieme sante memorie risorgimentali e confuse aspirazioni a essere considerati un po’ meglio, o meno peggio, nel consesso internazionale e nelle opinioni degli stranieri. Verdi l’italiano come mantra autoreferenziale, dove pure il provincialismo diventa una virtù.
Quei personaggi siamo noi
La sentenza di D’Annunzio, «pianse e amò per tutti», tanto celebre e celebrata da essere stata apposta anche sopra la sua tomba, alla Casa di riposo per musicisti di Milano, è senz’altro vera: nessuno come Verdi ha dato voce a un popolo e ha esercitato il magistero supremo dell’artista, riuscire a esprimere ciò che tutti proviamo. Ma contemporaneamente è anche falsa, se diventa un puro esercizio retorico che rinchiude Verdi in un mausoleo impedendogli di dialogare con la contemporaneità e di scavare, ieri come oggi, nelle piaghe nazionali, invece di cicatrizzarle spalmandoci sopra la sovrana bellezza della sua arte. Per troppo tempo Verdi è diventato una specie di garante operistico di questa Italia fatta male, una foglia di fico che copre le immancabili vergogne nazionali, quasi un’incarnazione aulica e alta dell’antico consiglio «canta che ti passa» della peggior tradizione menefreghista (…).
Si vorrebbe allora provare a uscire da questa situazione bloccata, da questa prospettiva consolatoria. Perché consolatorio Verdi non lo è mai. È un artista supremamente politico, che infatti sceglie di esprimersi nel teatro, che da 2.500 anni è il luogo della discussione, anzi che è nato ed esiste per questo. Qui, sulla scena, Verdi prende di petto le grandi questioni sociali e politiche della sua epoca. Ma sempre, di base, partendo dal suo essere italiano: sia per lo strumento che usa, il teatro d’opera, sia per i temi che analizza. E può capitare magari di scoprire che molto dell’Italia di allora esiste anche nell’Italia di oggi, e che non siamo poi così diversi dai nostri bisavoli che Verdi metteva in scena travestendoli da ebrei della Bibbia o da spagnoli del Cinquecento.