La Stampa, 14 febbraio 2018
Progettare il futuro con città pensate per ricevere i migranti
«L’avenir, tu n’as pas à le prévoir mais à le permettre», diceva Antoine de Saint-Exupéry. Il futuro non è qualcosa che possiamo prevedere, ma che dobbiamo permettere, ovvero costruire insieme attraverso le nostre azioni quotidiane.
Mi è venuta in mente quella frase mentre leggevo l’intervista a Paolo Cognetti su La Stampa dell’11 febbraio. Conosco Paolo da molti anni, e sebbene non condivida il suo pessimismo, su un punto mi sono trovato d’accordo con lui: in questo momento, a poche settimane dalle elezioni, il futuro è spaventosamente assente dal dibattito politico italiano.
Di quale futuro potremmo discutere? Paolo propone di mettere al centro della discussione le questioni ambientali, a partire dal cambiamento climatico. Sono assolutamente d’accordo: il domani, non soltanto del nostro Paese ma dell’intero pianeta, si gioca su questo punto. Vorrei però aggiungere un altro tema: il futuro delle nostre città.
Sin dalla loro nascita, circa diecimila anni fa, le città sono state un luogo di condivisione e tolleranza. Un magnifico spazio dove incontrarsi, scambiare beni materiali ma anche idee e cromosomi diversi dai nostri. È proprio nelle città, a partire dall’osservazione e dalla conoscenza del diverso, che si ricompongono molte fratture sociali. Non a caso, le percentuali di elettori per partiti xenofobi tendono a essere più alte nelle zone monoetniche, tipicamente suburbane, mentre si stemperano nel crogiolo di etnie delle aree metropolitane: qui l’incontro tra popolazioni lontane fa parte del quotidiano. Nelle ultime elezioni americane le città hanno votato massicciamente per Hillary Clinton, mentre le campagne si sono abbandonate al richiamo retrogrado del suo rivale.
Ma anche le città, per assolvere alla propria primordiale funzione civilizzatrice, devono essere curate. Curate facendo attenzione al degrado dello spazio pubblico. O limitando le diseguaglianze: da sempre esse fanno parte dell’esperienza metropolitana, ma quando si acuiscono troppo creano fratture difficili da ricomporre.
Come far sì che le nostre città tornino a funzionare come luoghi di tolleranza e inclusione – orizzonte simbolico sul quale proiettare le nostre attese sociali? Ci sono molti punti sui cui potremmo agire. Ad esempio lanciare programmi di riqualificazione delle nostre piazze, come hanno dimostrato di saper fare Barcellona o Lione negli ultimi venticinque anni. Oppure lavorare sulle periferie, come sta propugnando con molta passione Renzo Piano. Infine, smetterla del tutto di consumare suolo vergine per costruire inutili metri quadrati, e puntare invece alla riqualificazione del patrimonio edilizio esistente. In un Paese come l’Italia, in cui la popolazione diminuisce e gli standard edilizi non crescono, costruire nuovi quartieri vuol dire semplicemente svuotarne altri, condannandoli irrimediabilmente al declino edilizio e sociale.
Di questi temi si parla molto fuori dai nostri confini. Ricordo alcuni anni fa una cena a The Lodge, la Casa Bianca australiana, durante la quale l’allora premier Kevin Rudd rivolse ai commensali, incluso chi scrive, una domanda precisa: «Come potremmo creare un programma politico basato sulle città?». Rudd si riferiva al fatto che, nei successivi due decenni, milioni di migranti dall’Asia sarebbero approdati sulle coste dell’Australia. Come sarebbero dovuti cambiare i centri urbani per accogliere questo nuovo flusso di persone? In che modo architetti e urbanisti si sarebbero potuti preparare per questa grande sfida sociale?
Ecco, sono queste sono le domande che mi piacerebbe sentire dibattere nell’attuale campagna elettorale. Dalle loro risposte dipende il futuro urbano (e umano) del nostro Paese.
*Architetto e ingegnere,insegna al Mit di Bostone dirige lo studio di progettazione Carlo Ratti Associati con sede a Torino e New York