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 2018  febbraio 13 Martedì calendario

Parmigiano nato in Usa. Un saggio «smonta» il made in Italy

«Ma come, la cucina italiana sarebbe nata negli anni ’70 e il Parmigiano reggiano creato negli Stati Uniti? Chi siamo più, noi italiani, senza la tradizione?». Questo terrore antropologico, unito all’enorme business che ruota intorno alle nostre eccellenze agro-gastronomiche, spiega lo scalpore che sta suscitando il saggio di Alberto Grandi, Denominazione di origine inventata, edito da Mondadori.
Secondo il docente universitario la tradizione sarebbe stata inventata a mo’ di collante socio-politico in anni in cui la neo-identità industriale italiana, quella che avrebbe dovuto assicurare un benessere eterno, venne picconata dalla crisi economica, con annessi i primi disastri ambientali e pure il terrorismo. Appoggiandosi al saggio dello storico inglese Eric Hobsbawn, L’invenzione della tradizione, Grandi sostiene che il triangolo dieta mediterranea/cucina tradizionale/prodotti tipici sarebbe un’invenzione del marketing: i bassi tassi di colesterolo riscontrati da Ancel Keys nei popoli del Mediterraneo sarebbero frutto di una più banale sottonutrizione. Pellegrino Artusi viene definito un «non cultore della scienza gastronomica» che mise in scena una cucina costosa che venne popolarizzata dalla propaganda fascista, mentre la vera cucina della tradizione sarebbe nata negli Stati Uniti grazie agli emigranti italiani che avevano finalmente i soldi per acquistare i prodotti. E tutte le varie Dop, Igp, Stg, Doc e Docg sarebbero solo una «colonnata di frottole».
LE DENOMINAZIONI
E così, anche se il Boccaccio parlava di Parmigiano grattugiato, i documenti medievali ci dicono che quel formaggio pesando assai meno era diverso, mentre quello vero sarebbe stato creato nel Wisconsin grazie a dei casari italiani che lo chiamarono Parmesan. L’elenco delle finte denominazioni è lungo: il pomodoro Pachino sarebbe nato in Israele per merito di un’azienda che opera nel settore della genetica agricola, il Marsala inventato da un commerciante inglese, l’attuale cioccolato (granuloso) di Modica nato nel 1990 presso la Dolceria Bonajuto, e ce n’è ancora per prosciutti, spaghetti e aceto balsamico, fino a dire che «se i prodotti tipici si identificano per la platea dei consumatori e per la stabilità del prodotto stesso i veri sono solo quelli che consideriamo industriali la Nutella, il Chinotto San Pellegrino, il Martini, il Cornetto Algida».
«Quella di Alberto Grandi è una tesi pedestre, tutta la storia agroalimentare e gastronomica è per definizione all’insegna di prestiti e contaminazioni», ribatte l’antropologo Marino Niola, uno dei massimi esperti della dieta mediterranea, mentre Mauro Rosati, direttore generale di Qualivita, definisce il libro una bufala. Nel dubbio, al povero consumatore non rimane altro che affidarsi all’intuito e a un po’ di fortuna, scegliendo banalmente le cose che piacciono di più e rimandando la questione dell’essere italiani ai prossimi mondiali di calcio. Quelli del 2022, naturalmente.

COSE BUONE PER ANTEPRIMA