Il Messaggero, 13 febbraio 2018
A Molenbeek, culla del terrore: !Qui la rinascita é impossibile»
BRUXELLES Si sta con molto disagio davanti al palazzetto grigio dove fu arrestato Salah Abdeslam. Il fruttivendolo all’angolo, il signore che fa i lavori di fronte, i passanti per la rue des Quatre-Vents – pochissimi in questa mattina fredda – guardano con sospetto chi si attarda sui luoghi che hanno reso Molenbeek capitale mondiale del terrore. I due ragazzi alti, con barbetta, cappuccio della felpa tirato su, si avvicinano. Uno allunga il braccio, sembra minaccioso, punta il dito e: «Scusi, signora, guardi che ha la borsa aperta».
Cosa può raccontare, in una qualsiasi mattina di febbraio, questo quartiere a quattro fermate dal centro di Bruxelles? Lo chiamavano la piccola Manchester, quando venne su alla fine dell’Ottocento lungo il Canale che portava alle industrie e alle miniere. Manchester: per i mattoni rossi delle case dove abitavano gli operai e i minatori, qui erano quasi tutti italiani. Gli italiani se ne sono andati, sono arrivati gli arabi, per lo più maghrebini, per lo più marocchini. Le statistiche sono rimaste grigie, e diventate anche più ingiuste: quasi centomila abitanti, secondo comune per densità e giovani, primo per disoccupazione, ultimo per reddito. Non bastava: adesso anche primo esportatore di terroristi in Europa.
LA CULLA
All’alba del 14 novembre 2015 si sapeva già che dentro queste case erano nati e cresciuti quasi tutti i membri del commando che aveva appena fatto strage nei bar, nei caffè, al Bataclan. E prima di loro: gli assassini del comandante Massud in Afghanistan nel 2001, Hassan El Haski, uno degli organizzatori degli attentati del 2004 a Madrid, Mehdi Nemmouche, l’assassino del museo ebraico di Bruxelles, i terroristi di Verdiers, l’autore dell’attacco sul Thalys Ayoub el-Khazzani. Dopo di loro: il commando del 22 marzo 2016 a Bruxelles. Tutti passati per Molenbeek.
C’è chi organizza visite guidate nella culla del terrorismo, là il bar di Brahim e Salah Abdeslam, qui la rue de la Perle dove c’era un covo, e poi il negozio di abbigliamento degli Abaaoud, in piazza la casa della famiglia Abdeslam. Adesso i genitori hanno traslocato, sempre in un appartamento del comune, perché «i requisiti economici e sociali della famiglia non sono cambiati».
I LUOGHI
In piazza, un largo spazio rettangolare, chiuso in fondo dall’enorme Municipio, è giorno di mercato. Un mercato come tutti i mercati: animazione, frutta bella (molti agrumi), e prezzi bassi. Quasi nessuno parla francese. In fondo, un impiegato del comune ha creato una mini sommossa mentre distribuisce le buste riutilizzabili per la spesa perché dal primo gennaio quelle di plastica sono vietate: «Basta! se non smettete di spingere me ne vado, ci vuole educazione qua, ordine e educazione».
Al palazzo di Giustizia, a meno di cinque chilometri da qui, da casa sua, Salah affronta il primo processo: tentato omicidio per la sparatoria contro la polizia del 15 marzo 2016 nella rue de Dries (a un quarto d’ora col Tram 82), che segnò la fine della sua fuga. A Molenbeek del processo non vogliono sentir parlare. Anzi: se ne fregano proprio, «me ne frego», dice l’uomo – rifiuta il nome – che vende articoli per la casa davanti al Comune. Salah chi? Il problema è che non ne hanno mai voluto sentir parlare. Mai parlare, mai vedere.
Annalisa Gadaleta è di Bari: di quelli che non vedono, non sentono, non parlano ne ha conosciuti anche prima di arrivare in Belgio, nel ’94. Ha sposato un fiammingo, hanno due figli, vive due strade sopra la piazza Comunale e dal 2012 è assessore all’Ambiente di Molenbeek. «Non siamo guariti» dice nel mezzo di una conversazione in cui pure descrive le iniziative nuove, lo spirito di apertura, la bellezza di questa comunità.
Il bar in cui siamo, per esempio, il Brass’art, lo ha aperto meno di un anno fa un attore, Mohamed Ouchen, a due numeri civici dalla ex casa degli Abdeslam. Si organizzano dibattiti, mostre, karaoke, zuppa fatta in casa e toast col pesto (forse da rivedere appena) a cinque euro. Si beve anche birra. Mohamed a sentir parlare ancora di terroristi, preferisce alzarsi dal tavolo.
Annalisa no: «Bisogna dirle le cose. Prima i negozi sulla Chaussée de Gand non vendevano hidjab taglia dieci anni, prima non si vedevano ragazzine di sei, sette anni che andavano col velo alle elementari. C’è una parte della popolazione ripiegata su se stessa, che non parla francese, che paga anche molto per mandare i figli alla scuola coranica. Questo crea un terreno esplosivo, che c’era prima, e c’è purtroppo ancora. A denunciare queste cose, si finisce per essere accusati di razzismo. Io non sono abituata così, In Italia chi denunciava la mafia, era di sinistra». È una donna energica, positiva, che non ha perso l’ottimismo. Cita il «fantastico tessuto associativo» del comune, una cosa bella, ma anche un paradosso: «Qui non è un deserto come altri quartieri, eppure, nonostante questo, è successo».
L’IRRUZIONE
Molto è stato fatto, dopo il 13 novembre, ma molto resta da fare. I poliziotti sono ancora pochi, e si esita ancora troppo a imporre percorsi d’integrazione, corsi di lingua, di orientamento sociale. «Quando hanno arrestato Abdeslam ero nella scuola dietro alla casa in cui si nascondeva – racconta Annalisa, le si riempiono gli occhi di lacrime – Hanno fatto irruzione gli agenti speciali, coi mitra. Ci hanno confinato con i bambini. Bambini di 3, 4, 5 anni. Che già qui non hanno una vita proprio facile. Mi sono detta: questo no, non lo accetto. Mi voglio battere. In Italia dopo la morte di Falcone e Borsellino c’è stato un sussulto. Qui no, non ancora. Non siamo guariti». Però ci si prova.
A due fermate di metro si arriva a Molenbeek alta. È uscito il sole, non sembra più una piccola Manchester, ma una piccola Brooklyn. Più giù lungo il canale sono fioriti, il Mima, Millenium Iconoclast Museum of Arts, spazi di co-working, ristoranti local-bio. La rue des Béguines è una bella stradina calma e alberata.
IL BAR
Al 39 c’è ancora l’insegna: bar des Béguines. Era il bar di Brahim Abdeslam (saltato in aria sul boulevard Voltaire il 13 novembre) e suo fratello Salah. Chiuse due settimane prima delle stragi di Parigi. Qui vendevano fumo, bevevano, organizzavano gli attacchi. Per un anno e mezzo la strada è rimasta transennata. Gli abitanti tiravano dritto davanti alle porte chiuse, a quel luogo maledetto.
Oggi il locale è aperto, dentro è stato tutto pulito, pezzi del banco sono appoggiati ai muri, i fili dell’impianto elettrico da rifare pendono dal soffitto. I fratelli Abdeslam? «Li vedevo seduti davanti al locale, buongiorno e buonasera, non sono mai entrato nel bar», racconta Jean-Yves Kitantou, dell’associazione Make It Real, che abita poco più su. Con altre associazioni ha deciso di riprendersi il locale, sta finanziando i lavori, vuole trasformarlo in un luogo di vita, dove fare corsi di cucina, e magari un doposcuola per bambini: «Gli abitanti hanno esitato, poi hanno detto che era una buona cosa, ma tutti mi hanno pregato di una cosa: mai più un bar qui».