il Giornale, 13 febbraio 2018
La sanità cambia dna
La medicina del futuro è nelle vene di un bimbo pugliese di 4 anni. Aveva 12 mesi quando gli hanno scoperto una leucemia linfoblastica acuta, il cancro del sangue più frequente in età pediatrica. Ha sopportato un ciclo di chemioterapie e un trapianto di midollo, inutili. All’ospedale Bambin Gesù di Roma hanno tentato una cura sperimentale, una terapia genica: gli hanno prelevato del sangue; hanno modificato geneticamente i linfociti T, le cellule più importanti del sistema immunitario, così da renderli in grado di riconoscere le cellule tumorali e combatterle; li hanno coltivati e reinfusi nel piccolo paziente. A un mese dall’intervento il male è sparito. La notizia ha fatto clamore.
Nei giorni successivi sono stati trattati anche una diciassettenne per lo stesso tumore e un bimbo malato di neuroblastoma, una neoplasia del sistema nervoso. Terapie di precisione specifiche per il corredo cellulare di ogni paziente. È la medicina di domani, personalizzata dalla bioingegneria genetica, che riscriverà i manuali di cura ma rivoluzionerà anche le case farmaceutiche e l’organizzazione della sanità. Questi sono trattamenti che richiedono grandi investimenti, lunghi anni di ricerca e sperimentazione, nuove tecnologie produttive e forti spese per brevetti e autorizzazioni. Nella terapia genica e cellulare incidono notevolmente i costi per la produzione ad personam (stanze dedicate, reagenti, personale specializzato). Chi potrà permettersi questi farmaci dai costi altissimi? Le terapie geniche approfondiranno la spaccatura tra ricchi e poveri oppure gli Stati le renderanno accessibili a tutti? E dove troveranno le (...)
(...) risorse? L’anno scorso Novartis ha avuto dalla Fda (agenzia Usa che regolamenta i prodotti alimentari e farmaceutici) l’autorizzazione a mettere in commercio il Kymriah, antileucemico basato sulla stessa tecnica Car-T applicata al Bambin Gesù. La multinazionale ha fissato il prezzo a 475mila dollari. Spark Therapeutics di Philadelphia produce Luxturna, terapia genica contro la cecità, a 425mila dollari per occhio. Strimvelis di GlaxoSmithKline, cura contro l’assenza di sistema immunitario, è stato autorizzato in Europa per 594mila euro. Negli Stati Uniti per Yescarta di Kite Pharma, trattamento del linfoma a grandi cellule B negli adulti, occorre sborsare 373mila dollari.
MERCATO GLOBALE
In diverse parti del mondo decine di terapie geniche e cellulari sono in attesa di autorizzazione. Si sta aprendo un immenso mercato. Soltanto lo scorso gennaio sono state chiuse due colossali operazioni: Celgene ha acquisito per 9 miliardi di dollari Juno Therapeutics, azienda pioniera nello sviluppo delle terapie Car-T, mentre Sanofi, per 11,6 miliardi di dollari, ha assorbito Bioverativ, specializzata nella ricerca di cure cellulari contro le malattie del sangue. A fine 2017 la californiana Gilead ha inglobato Kite Pharma per 12 miliardi di dollari. Nel 2012 la stessa Gilead aveva rilevato per 11,2 miliardi Pharmasset, una start up che aveva scoperto un farmaco rivoluzionario (e costosissimo) contro l’epatite C. Secondo gli analisti della banca d’affari americana Bryan Garnier & Co, il settore biotech presenta i maggiori prezzi di acquisizione ma garantisce i ritorni economici più elevati ai giganti farmaceutici che ingoiano a colpi di miliardi i know how elaborati da piccole realtà di ricerca biotech soprattutto nella cura di tumori e malattie rare. Nel 2016 le imprese biomediche nel mondo hanno speso 157 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo: erano 127 nel 2009 e si stima che saliranno a 180 miliardi nel 2022.
L’Italia è all’avanguardia in questo settore. L’Italia è terza in Europa per numero di imprese biotech, cresciute del 30 per cento nell’ultimo decennio: per larghissima parte (79 per cento) hanno meno di 10 addetti con una forte propensione all’export. Uno dei pionieri è il professor Claudio Bordignon: 25 anni fa la sua équipe al San Raffaele di Milano ha condotto la prima sperimentazione di terapia genica su cellule staminali per una malattia ereditaria. Quella terapia, sviluppata dall’Istituto Telethon Tiget, è diventata lo Strimvelis di Gsk, sviluppato e prodotto da Molmed, società biotech fondata dallo stesso Bordignon e oggi quotata in Borsa. Da poche settimane un altro trattamento genico elaborato e prodotto da Molmed, lo Zalmoxis, che rende sicuro il trapianto di midollo osseo da donatore non perfettamente compatibile, ha ottenuto l’autorizzazione dall’Agenzia del farmaco (Aifa). Zalmoxis, commercializzato in Europa da Dompé, viene rimborsato dal Servizio sanitario al costo di 149mila euro. In Germania è stato depositato il dossier Amnog presso le autorità e fissato un prezzo che per il primo anno sarà di 163.900 euro.
COSTI ALLE STELLE
L’entusiasmo per le scoperte dei ricercatori e il colossale business che vi si accompagna apre anche enormi interrogativi etici. La nuova medicina non modifica geneticamente soltanto le cellule dei pazienti ma trasforma il Dna stesso dei sistemi sanitari, che dovranno rendere disponibili i nuovi rimedi salvavita remunerando gli ingenti investimenti in ricerca e al contempo salvaguardando i conti.
«L’ingegnerizzazione del sistema immunitario combina efficacia e sicurezza in modo straordinario», spiega Riccardo Palmisano, amministratore delegato di Molmed e presidente di Assobiotec, l’associazione delle imprese biotecnologiche nell’ambito di Federchimica. «Ma i costi di questa eccellenza sono altissimi per la ricerca sulla manipolazione cellulare, il costo delle persone e i controlli di sicurezza. Si lavora sulle economie di scala anche se si tratta sempre di terapie ad hoc per ogni paziente. E i tempi di sviluppo sono imprevedibili: per anni si investe senza fare fatturato». Quando arriva l’autorizzazione degli enti regolatori e si apre il business, si pone il problema del prezzo. «Queste terapie impongono di rivedere completamente il sistema dice Palmisano -. Per le malattie rare, queste sono cure sostitutive e risolutive. Il paziente guarisce, per il resto della vita non dovrà prendere altri farmaci né sottoporsi a controlli. Si sostengono costi alti, ma si realizzano forti risparmi. Non è però detto che l’esborso debba avvenire tutto subito; si potrebbe legare la spesa all’efficacia del farmaco oppure diluirla come in un leasing, un pagamento cronicizzato che consente alle aziende e al sistema sanitario di avere entrate e uscite programmate».
«Anche per le cure oncologiche – aggiunge Palmisano – vanno considerati i costi evitati dalle terapie innovative. Per esempio, i nuovi farmaci contro l’epatite C consentono di ridurre i trapianti di fegato. Il paziente è recuperato al lavoro, non pesa sull’Inps, non consuma risorse sanitarie in ricoveri e diagnostica, non richiede assistenza domiciliare o privata né ausili come carrozzine o respiratori. Dobbiamo allargare lo scenario al complesso dei risparmi realizzati dal sistema».
CHI PAGA LE CURE?
Non è più una fuga in avanti perché, con l’accelerazione degli ultimi mesi, il futuro è già qui. «Legislatori, regolatori e pagatori si devono attrezzare per affrontare l’ondata innovativa riflette il presidente di Assobiotec -. Finora ci si è occupati di piccole popolazioni. Ma sono in fase di approvazione, per esempio, terapie geniche contro la talassemia che in Italia potrebbero interessare 7.000 pazienti. E qui non siamo più su numeri di nicchia». Già oggi, osserva Paola Testori Coggi, presidente del Comitato prezzi e rimborso dell’Aifa, tra i farmaci in sviluppo le terapie personalizzate sono il 42 per cento, e addirittura il 73% tra i farmaci oncologici. «Il prezzo dei farmaci precisa Testori Coggi – è valutato dall’Aifa considerando l’insieme dell’impatto terapeutico ed economico: efficacia clinica per il paziente, valore aggiunto clinico terapeutico, rilevanza e gravità della patologia, riduzione di altre voci di costo. Margini di risparmio comunque esistono: se si sviluppassero i test genetici specifici per verificare l’efficacia dei farmaci, i costi si potrebbero ridurre di un terzo. Il prezzo calerebbe anche sottoponendo il farmaco a nuovi test clinici ed estendendone l’applicazione ad altre indicazioni, oppure individuando terapie combinate».
L’accordo sullo Zalmoxis è un primo passo. Il prezzo di 149mila euro accompagnato da un costo «flat» a paziente riconosce valore allo sforzo di un’eccellenza italiana nella ricerca sui medicinali innovativi e tiene conto delle possibilità delle casse pubbliche. Una scelta che apre una strada prima che le nuove terapie diventino un’esclusiva per chi se le può permettere.