Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2018
Trump lancia le grandi opere
Un piano da 1.500, forse 1.700 miliardi in dieci anni che decolli grazie a un’iniezione di fondi federali per 200 miliardi. Donald Trump ha tenuto ieri a battesimo la sua strategia per risanare e ammodernare le infrastrutture americane, cimentandosi con un’emergenza denunciata da molti presidenti e numerosi politici di entrambi i partiti ma finora rivelatasi difficile da risolvere.
La proposta «creerà il più grande e audace investimento infrastrutturale nella storia degli Stati Uniti», ha rivendicato Trump durante un incontro alla Casa Bianca con autorità locali, da governatori a sindaci, e prima di viaggi nel cuore del Paese per promuovere i futuri progetti. Non è mancato un collegamento con America First: «Dopo aver speso stupidamente settemila miliardi in Medio Oriente, è ora di investire nel nostro Paese». Né una stoccata a partner-rivali economici, accusati di impoverire l’America con politiche commerciali ingiuste: ha minacciato in settimana di rilanciare un’«imposta reciproca» sull’import.
Il tema del giorno è ugualmente rimasto il piano infrastrutturale, 55 pagine di «principi legislativi». Con alcune sorprese: ipotesi di privatizzare infrastrutture federali per massimizzarne il valore, quali gli aeroporti della capitale Ronald Reagan e Dulles International. I capisaldi della strategia sono però nuova spesa, sotto forma di incentivi, e snellimenti burocratici. Prevedono che siano anzitutto stati e municipalità a mobilitare risorse, coprendo fino all’80% dei costi: dei 200 miliardi federali, metà sono “grants” che premiano chi raccoglierà proprie entrate per ponti o ferrovie, aeroporti o acquedotti. I vincitori riceveranno, appunto, fino al 20% del valore complessivo. Trump ha promesso di sveltire, a uno o due anni, procedure di approvazione in media vicine ai cinque anni.
La formula, soprattutto quella finanziaria, è sicuramente ambiziosa e fa discutere esperti e politici: ribalta la matematica delle grandi opere americane, tradizionalmente finanziate al 50-80% da fondi federali. E assicura che il piano non avrà vita facile. Per diventare legge dovrà passare per undici commissioni e al Congresso serpeggiano le divisioni. L’opposizione democratica ha una sua strategia da mille miliardi interamente finanziata da fondi federali. Puntare su fondi locali, denunciano i democratici, svena stati e municipalità già alle strette. Appare loro improbabile che le imprese si facciano carico, con partnership pubblico-privato, di infrastrutture nelle aree povere. Le preoccupazioni tra i conservatori sono di segno opposto: un’eccessiva spesa che moltiplichi sprechi e debito federale, già appesantito dagli sgravi della riforma fiscale e da un accordo biennale sul budget che aumenta spesa militare e sociale.
La Casa Bianca, in preventiva risposta alle obiezioni, ha destinato fondi specifici alle aree rurali – 50 miliardi – e a progetti “trasformativi” per l’economia – 20 miliardi – quali l’alta velocità. Altri 30 serviranno a terminare progetti in corso e all’edilizia federale. Per chi lamenta i deficit, Trump li ha minimizzati aggiungendo che spetterà al Congresso tagliare altrove e di non essere contrario a raccogliere fondi con l’aumento di almeno una tassa, sulla benzina.
Questo approccio – niente paura del deficit e semmai risparmi su voci sociali – è parso evidente nella sua nuova proposta di budget per il 2019: 4.400 miliardi di spesa e un passivo annuale da 984 miliardi che in un decennio aggiungerà al debito 7.100 miliardi. Trump chiede 21 miliardi iniziali per le infrastrutture e 23 per il Muro al confine con il Messico ma drastici tagli alla sanità come alla cultura. Sul Congresso preme nei fatti affinché già corregga l’intesa parlamentare sul budget appena firmata, cancellando aumenti non militari.
Posizioni che rischiano di mantenere caldo il clima politico e complicare ancora la partita infrastrutturale: Trump era stato ripetutamente costretto dai dissensi a rinviare il piano, inizialmente atteso lo scorso giugno. La domanda di grandi opere negli Stati Uniti tuttavia cresce, suggerendo un compromesso. L’associazione degli ingegneri civili Asce, che ogni quattro anni valuta le condizioni del parco infrastrutturale, nel 2017 ha assegnato D+, una risicata sufficienza che imporrebbe di investire 4.500 miliardi entro il 2025. Per correggere un altro deficit, questo davvero storico: se negli anni Sessanta l’America investiva il 4% del Pil in opere pubbliche, la percentuale adesso si aggira attorno al 2,6 per cento.