Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2018
Quelle clausole Iva spazza-promesse. Dopo il voto Governo e Parlamento dovranno evitare prima di tutto aumenti di imposta per 31,5 miliardi
Meno tasse, promettono un po’ tutti i partiti, se pur con sfumature e articolazioni diverse. Dalla flat tax all’estensione degli 80 euro, dall’abolizione delle tasse universitarie, del canone Rai e dell’Irap al reddito di cittadinanza e alla riduzione dell’Ires, tanto per citare alcune delle proposte in campo. La dura realtà è un’altra. Chiuse le urne, governo e Parlamento (quale che sia la maggioranza che li sosterrà) dovranno per prima cosa evitare che le tasse aumentino, per un importo assai vicino ai 31,5 miliardi nel biennio 2019-2020. È l’eredità delle vecchie “clausole di salvaguardia”, già inserite nei saldi di finanza pubblica a garanzia (soprattutto europea) della tenuta dei conti. Una sorta di convitato di pietra, del tutto ignorato dal confronto elettorale in corso. Se questa raffica di aumenti di imposta non verrà neutralizzata con misure alternative, dal 1° gennaio 2019 l’aliquota intermedia dell’Iva passerà dal 10 al 12%, e al 13% dal 2020, mentre l’aliquota ordinaria passerà nel 2019 dal 22 al 24,2% e al 24,9% nel 2020, anno in cui scatterà anche l’aumento delle accise sui carburanti per 300 milioni. Totale: 12,4 miliardi di maggiori tasse nel 2019, e 19,1 miliardi dal 2020. Eredità pesante e scomoda da esibire, quando al contrario si punta agli effetti speciali delle mirabolanti promesse, gran parte delle quali irrealizzabili. Alla luce di queste cifre, lo scenario più realistico è che i piani di riduzione delle tasse andranno quanto meno rinviati al 2021, quando l’effetto delle vecchie clausole cesserà di dispiegare i suoi nefasti effetti. Certo, si potrà tentare di finanziarle nuovamente in deficit, elevando l’asticella rispetto all’1,6% atteso per quest’anno. È quanto è stato deciso con la manovra del 2018, che di fatto ricorre all’aumento del deficit per il 70% dei 15,7 miliardi necessari a evitare l’aumento dell’Iva. Non è detto però che questa volta la Commissione europea – in pendenza peraltro di un giudizio che preluderà alla richiesta di una manovra bis per 3,4 miliardi – dia il via libera a un’altra e così corposa tranche di flessibilità. Si aprirà un negoziato, dagli esiti al momento alquanto incerti. Per provare a spuntarla occorrerà comunque garantire una più vigorosa discesa del rapporto debito/Pil, indicato per il 2018 a quota 131% del Pil contro il 132,5 per cento del 2017. Se la strada del ricorso al deficit fosse in tutto o in parte preclusa, occorrerebbe mettere in campo sostanziosi tagli di spesa e aumenti di entrate. Difficile sfuggire a questa logica, per chiunque abbia tra breve l’onore e l’onere di governare il Paese. La direzione di marcia andrà peraltro tracciata già con il Documento di economia e finanza di metà aprile. Chi se ne occuperà? Se non sarà formato il nuovo esecutivo, toccherà nuovamente al governo Gentiloni. E poi se ne riparlerà in autunno, con la prossima legge di Bilancio.