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 2018  febbraio 11 Domenica calendario

Borges e l’abbozzo di suicidio che gli regalò una nuova vita

Il libraio non ispira simpatia. Mi guarda con occhi esatti come vocali. Dico il titolo. Fa un cenno con la testa. Si alza. Scompare. La libreria si chiama «Los Argonautas», gli argonauti. Sta in Avenida Santa Fe, a Buenos Aires. Vicino alla zona dove sono ospite, Recoleta. Jorge Luis Borges ha abitato alla Recoleta. Era affascinato dal cimitero, «meravigliosa è la serenità delle tombe/ la comunione di marmo e fiore... ed esaltiamo il sogno e l’indifferenza», canta il genio in La Recoleta, tra i suoi primissimi testi, in Fervore di Buenos Aires.
La libreria sembra infinita e, lo ammetto, sono a Buenos Aires per Borges. Cerco due cose. Ne troverò tre. La prima, mi dicono, posso trovarla solo in quella libreria. Il libraio torna. Spolvera il tomo. Me lo consegna. «Io li conosco quei tempi», dice. Quali?, faccio io. «Andavi al Gran Café Tortoni, il più antico di Buenos Aires, e lo vedevi, attaccato al suo bastone, con gli occhi che volano. E potevi parlargli». Il libraio allude a Borges, ovviamente. A Buenos Aires, una specie di imitazione di Parigi sul dorso di un giaguaro, i caffè sono una istituzione letteraria. Al Tortoni vado qualche ora dopo. Si trova in Avenida de Mayo, quella che sboccia sulla fatidica Plaza. Il faccione di Borges, in un angolo del locale, stancamente liberty, vicino a quello di Pirandello. Qualche numero civico dopo c’è il Café London, «dove Julio Cortázar ha scritto Los premios», è scritto.
La prima cosa che cerco è un libro e un personaggio. Il personaggio si chiama Félix della Paolera. Per quasi quarant’anni, ogni sabato, ha portato a pranzo Borges. Gli aneddoti su Félix della Paolera si sprecano: amico di Juan Rodolfo Wilcock, ha accompagnato William Faulkner nei più malfamati bar di Buenos Aires, ha scambiato qualche lettera con Martin Heidegger ed è stato l’esecutore testamentario di César Mermet, mirabile esteta che ha votato la vita alla poesia senza pubblicare, in vita, un rigo (roba che fece infiammare Borges, che scrisse di lui, nel 1980, «Gli ho parlato un paio di volte; non mi ha mai detto che era poeta. Forse pensava che pubblicare è rassegnarsi a un testo definitivo. Non dirò che fu un grande poeta perché, in questo caso, l’epiteto sminuisce il sostantivo»). Félix della Paolera fu un uomo evanescente, un intellettuale inafferrabile: ha condizionato la cultura argentina pubblicando quasi nulla, avvinto da aristocratico pudore. Nel 1999 El Grillo, questo il soprannome, pubblica in un migliaio di esemplari Borges: Develaciones, summa della sua devozione borgesiana, «un libro magico, un Aleph» (così María Kodama, musa, sodale, moglie di Borges). Il libro è quasi introvabile; a «Los Argonautas», grazie al libraio schivo – e lercio di polvere – l’ho trovato. Vi si racconta, tra l’altro, dell’incontro tra Borges e Astor Piazzolla, organizzato da Félix della Paolera, il 23 gennaio del 1965, e di quel giorno, «era l’autunno del 1983», in cui «cominciammo a lavorare a un libro di haiku, che includeva una storia dell’evoluzione della poesia giapponese fino a Basho». Tango e haiku: Borges, lo sappiamo, è un uomo che si muove tra gli estremi, nell’effervescenza della fragilità. El Grillo era tra i pochi ad avere accesso alla biblioteca privata di Borges. Negli anni «ricevetti da lui una selezione delle poesie di Gerald Manley Hopkins, i racconti di Henry James, la traduzione di Edward Fitzgerald delle Rub’ayyat di Omar Khayyam, la Bhagavad-Gita (in versione spagnola), l’intenso poema di Chesterton, La ballata del cavallo bianco, il romanzo cinese Il sogno della camera rossa di Tsao Hsueh Ch’in (in traduzione inglese)».
Il secondo motivo per cui sono a Buenos Aires si chiama Liliana Heker. Classe 1943, tra i massimi narratori argentini degli ultimi decenni – memorabili le sue stoccate a Cortázar, reo di lanciar strali contro la letteratura argentina dal dorato esilio europeo – l’anno scorso ha pubblicato per Alfaguara i Cuentos Reunidos, tutti i racconti (medesimo trattamento accaduto, con lei, a Saul Bellow, Karen Blixen, Nabokov, Juan Carlos Onetti, Abelardo Castillo e Cortázar). Mi inoltra alla sua conoscenza María Soledad Pereira, affascinante giornalista. È lei a mostrarmi un libro della Heker che vale il viaggio. Il libro s’intitola Diálogos sobre la vida y la muerte. Una sfilza di interviste. La prima, del 1980, è a Borges. «Cosa le suggerisce la parola morte?», domanda la scrittrice. Borges è di glaciale ironia. «La parola morte? Mi suggerisce... una grande speranza. La speranza di non essere più. Qualche volta, mi sento un po’ triste – capita a tutti; soprattutto se sei un uomo solo, cieco, che ha qualche amico prezioso ma non troppi, un uomo timido come me. Eppure, mi consolo. Morirò e finirà tutto, non posso desiderare altro, sono grato alla morte, che è la parente stretta del sogno, che è la cosa più grande che può darci la vita».
Il libraio di Avenida Santa Fe, argonauta bibliomane, con quella faccia d’acciaio che pare un editto babilonese, ha un’altra sorpresa per me. Il terzo motivo – inatteso – per cui sono sbarcato a Buenos Aires. Accenna a un tomo. «Magari le piace», fa. Poi scompare di nuovo, sotto un cavalcavia di libri. Il tomo s’intitola Borges, postales de una biografía. L’autore, Nicolás Helft, già responsabile di Villa Ocampo, «collezionista e lettore fanatico di Borges dall’infanzia», ha raccolto le cartoline di Borges, inedite, costruendo una biografia anomala, per sketch. L’ultimo frammento è datato 14 aprile 1971. Borges scrive a mammà, la divina Leonor Acevedo Suárez, firmandosi, come di consueto, Georgie. Lo scrittore è in Islanda con la Kodoma, «Reykjavik è infinitamente bella... mi sento molto felice e sto contando i giorni prima di partire». In La moneta di ferro (1976), Borges rievoca il viaggio in una poesia dedicata all’«alba in Islanda», «cristallo nero in cui si specchia/ Iddio, che non ha volto». A quel tempo Borges è già il veggente argentino, direttore, con felina indolenza, della Biblioteca Nacional, dal 1955 – «Borges, non sia un idiota e accetti», lo rimproverò Victoria Ocampo, la gran dama delle lettere argentine, la fondatrice di Sur – perfino icona pop. In Performance, film pulp del 1968, manifesto della Swinging London, le labbra leggendarie di Mick Jagger sussurrano frammenti sconnessi da Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, il più rappresentativo racconto di Borges, scritto nel 1940, raccolto in Finzioni.
Dalla «vertigine metafisica» al settimo cielo della fama: Nicolás Helft, astratto come un personaggio borgesiano – l’avrei dovuto incontrare a Buenos Aires, mi ha avvisato di essere a Ginevra, mi ha scritto da Lisbona – spiattella le intimità di Borges. Il primo rapporto sessuale – a 18 anni, «incontrò una donna affascinante, fu una esperienza irresistibile, ma quando scoprì che l’incontro era stato organizzato dal padre si inasprì in lui la convinzione che il mondo è sorretto da una serie di convenzioni fittizie, fasulle» – la mamma-vampiro – nel 1968, intorno a un tavolo, radunò una manciata di donne per scegliere quella che avrebbe sposato il figlio settantenne: la scelta cadde su Elsa Astete, votata all’infelicità, che divorziò due anni dopo – la golosa difficoltà con le donne. Borges ne amò tantissime, ricambiato da svariati due di picche. Una cartolina a Estela Canto è di delicata bellezza, «Ti immagino e ti penso continuamente, però sempre di spalle, o di profilo». Il documento più dirompente, però, s’intitola Manoscritto trovato nell’abitazione di un suicida. Siamo nel 1940, all’Hotel Las Delicias di Adrogué. Borges immagina la morte dell’«altro J.L.B. (l’altro e il vero Borges, quello che mi giustifica in un modo sufficiente e segreto)». L’altro Borges compra un romanzo di Ellery Queen e «una pistola in calle E. Ríos», poi si dirige all’albergo per consumare la sua vita. «Quando scrive queste righe, Borges è al colmo dell’infelicità: ha 40 anni, i suoi libri vendono poco, il denaro gli serve a mala pena per comprare qualche libro e andare al cinema, vive solo, con la madre».
Borges scrive il suo suicidio. Dall’«annichilimento della realtà» sorge un genio. Lo stesso «Hotel de Adrogué, tra i caprifogli effusivi e il fondo illusorio degli specchi», dove si uccide l’altro Borges, è lo sfondo di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, il primo racconto della nuova vita del nuovo Borges. A Buenos Aires l’oscurità cade come un morso, riduce le strade, gli edifici eleganti, gli uomini, in sabbia.

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