Il Messaggero, 11 febbraio 2018
«Così con 21 investimenti rivitalizziamo le imprese». Intervista ad Alessandro Benetton
«Ho fatto l’imprenditore per i fatti miei dal 1992, avevo 28 anni. Avrei potuto accomodarmi, invece io non volevo essere l’erede di nessuno: volevo scrivere una pagina solo mia». Alessandro Benetton è a un giro di boa, l’ennesimo: la sua creatura, 21 Investimenti, compie 25 anni. Quell’avventura nata quando i fondi di private equity in Italia erano ancora sconosciuti, è diventata grande. «Sì, è diventata maggiorenne. E continua a cambiare perché chi non cambia, è perduto».
Quanto capitale gestisce?
«Un miliardo e mezzo. All’inizio dei Duemila abbiamo cambiato pelle, siamo diventati struttura pura di Private, e infine siamo passati da finanziatori di Pmi a soci che nelle aziende si fanno anche carico delle scelte e si prendono la responsabilità ultima della gestione. E questo ci sta dando grandi soddisfazioni».
Le imprese italiane sono cambiate per scelta o perché costrette?
«Chi vive la gestione dell’azienda giorno per giorno rischia di non avere il tempo e la capacità di alzare lo sguardo e guardare al domani, e ai cambiamenti necessari per affrontarlo. Oggi puoi essere perfetto, ma i cicli industriali non durano più trent’anni. Tutto è più veloce».
All’estero è diverso?
«Ormai le aziende italiane si sono allineate. In Francia 21 Investimenti è già al quinto fondo, l’ultimo che sarà da 250 milioni di euro sta partendo adesso e sarà anche l’ultimo nazionale perché il prossimo sarà paneuropeo, senza confini».
Quanto dura un vostro ciclo di investimenti?
«Dodici anni. Il migliore è stato quello italiano iniziato nel 2007, perché c’è stata un’accelerazione nella consapevolezza di chi aveva bisogno di una guida diversa, in termini di velocità. Abbiamo completato più di 90 investimenti e raccolto risorse per oltre 1,6 miliardi di euro da investitori italiani e internazionali. Le nostre aziende generano ricavi per 1,4 miliardi e impiegano 8.000 dipendenti. In 25 anni di attività il rendimento complessivo realizzato è di oltre il 20% annuo. Dal 2007 ad oggi abbiamo avuto una creazione di valore straordinaria».
Ad esempio?
«Nadella Italia, azienda nata negli anni 30 e nella quale abbiamo investito: fa cuscinetti, i rulli che si vedono negli aeroporti. Fatturava 30 milioni con 100 dipendenti. Adesso il 65% del fatturato viene dall’estero, il 5% del personale si dedica a ricerca e sviluppo e crea 100 nuovi prodotti ogni anno. Risultato: raddoppiati risultati, redditività e dipendenti».
Ha accennato alla velocità: ogni quanto tempo bisogna cambiare?
«Dipende dai contesti. Il cambiamento non è una linea retta, va a scalini».
E le aziende italiane sono pronte?
«La crisi ha accelerato la consapevolezza. Vieni forzato a tempi di reazione più brevi».
A proposito di velocità dei cambiamenti. I braccialetti di Amazon sono una fuga in avanti?
«Ho visto alla Bosch gli occhiali che ti guidano in magazzino. Dobbiamo uscire anche qui dal dogmatismo: l’uomo cerca l’evoluzione. Devi fare i passi in avanti: se poi ti accorgi che non va bene, fai sempre in tempo a ritornare indietro. Non puoi sottrarti al futuro».
Che idea si è fatto della flat tax?
«Se si vuole andare verso la flat tax, lo si deve fare in maniera graduale. Perché comunque genera un buco nel bilancio. Serve pianificazione e progressione».
Come giudica i passaggi generazionali nelle aziende italiane?
«Ho visto padri che non hanno trovato adeguate successioni, ma altrettanti che non sono riusciti a capire le caratteristiche dei figli; forse perché cercavano di fargli indossare un abito su misura. Magari nel frattempo la moda è cambiata e il figlio ha spalle diverse, e forse il figlio conosce lo stile attuale meglio del padre».
E la sua avventura in Benetton Group? Lei era reduce da molti successi con la 21 ed è un esperto di passaggi generazionali: ma lì dopo pochi mesi se ne è andato. È sembrata quasi una fuga. Sono passati 5 anni: che cosa è successo?
«Bisogna partire da lontano: quando sono tornato da Harvard a 27 anni avrei dovuto occuparmi della diversificazione nello sportswear. Ma con il professor Porter avevo capito che quel mondo sarebbe cambiato, e che il cambiamento era perfino più importante della buona gestione. Purtroppo ero stato facile profeta: alla fine la grande distribuzione è arrivata e ha messo in difficoltà il settore».
Quindi?
«Quindi quando mi hanno spiegato che avrebbero continuato ad applicare il vecchio modello, ho preferito costruirmi una mia strada».
Poi però dopo vent’anni è ritornato in Benetton, prima come vice e poi come presidente.
«Come vicepresidente ho affiancato mio padre e l’amministratore delegato che lavorava con la famiglia da trent’anni. In quegli anni ho condiviso con loro le deleghe e sperimentato le idee che avevo in mente sul futuro dell’azienda. Mi hanno chiesto di diventare presidente ad aprile 2012 ma già a novembre ho scritto all’Ad della Holding per dirgli che non ero più interessato».
E perché?
«Perché se uno deve guidare, guida: non devono esserci troppe mani sul volante. Quindi nel 2013 ho lasciato la gestione che è stata assunta da Edizione. Non è questione di presunzione o di cattivi rapporti, anzi; ho sempre avuto con tutti, anche con i manager o l’amministratore delegato, intese straordinarie per affetto e rispetto. Ma quando ho capito che la troppa passione di tutti portava a non concentrarsi sul futuro, ho preferito farmi da parte. Senza problemi. Il mio lavoro era ed è qui a 21 Investimenti».
Come giudica il rientro di suo padre Luciano alla presidenza di Benetton Group?
«Come ho detto sono fuori dall’operatività dell’azienda da 5 anni, non conosco nei dettagli l’attuale situazione. Ma lo vedo come un interessante momento di discontinuità. Una bella sfida: se ci si organizza bene, potrebbe venir fuori un bel risultato. Può essere un fattore scatenante di una nuova energia: io sicuramente faccio il tifo, sarebbe importante per tutti ed in particolare per mio padre. Anche se ormai sono in un’età in cui mi sento più padre che figlio».