Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  febbraio 11 Domenica calendario

«Così con 21 investimenti rivitalizziamo le imprese». Intervista ad Alessandro Benetton

«Ho fatto l’imprenditore per i fatti miei dal 1992, avevo 28 anni. Avrei potuto accomodarmi, invece io non volevo essere l’erede di nessuno: volevo scrivere una pagina solo mia». Alessandro Benetton è a un giro di boa, l’ennesimo: la sua creatura, 21 Investimenti, compie 25 anni. Quell’avventura nata quando i fondi di private equity in Italia erano ancora sconosciuti, è diventata grande. «Sì, è diventata maggiorenne. E continua a cambiare perché chi non cambia, è perduto».
Quanto capitale gestisce?
«Un miliardo e mezzo. All’inizio dei Duemila abbiamo cambiato pelle, siamo diventati struttura pura di Private, e infine siamo passati da finanziatori di Pmi a soci che nelle aziende si fanno anche carico delle scelte e si prendono la responsabilità ultima della gestione. E questo ci sta dando grandi soddisfazioni».
Le imprese italiane sono cambiate per scelta o perché costrette?
«Chi vive la gestione dell’azienda giorno per giorno rischia di non avere il tempo e la capacità di alzare lo sguardo e guardare al domani, e ai cambiamenti necessari per affrontarlo. Oggi puoi essere perfetto, ma i cicli industriali non durano più trent’anni. Tutto è più veloce».
All’estero è diverso?
«Ormai le aziende italiane si sono allineate. In Francia 21 Investimenti è già al quinto fondo, l’ultimo che sarà da 250 milioni di euro sta partendo adesso e sarà anche l’ultimo nazionale perché il prossimo sarà paneuropeo, senza confini».
Quanto dura un vostro ciclo di investimenti?
«Dodici anni. Il migliore è stato quello italiano iniziato nel 2007, perché c’è stata un’accelerazione nella consapevolezza di chi aveva bisogno di una guida diversa, in termini di velocità. Abbiamo completato più di 90 investimenti e raccolto risorse per oltre 1,6 miliardi di euro da investitori italiani e internazionali. Le nostre aziende generano ricavi per 1,4 miliardi e impiegano 8.000 dipendenti. In 25 anni di attività il rendimento complessivo realizzato è di oltre il 20% annuo. Dal 2007 ad oggi abbiamo avuto una creazione di valore straordinaria».
Ad esempio?
«Nadella Italia, azienda nata negli anni 30 e nella quale abbiamo investito: fa cuscinetti, i rulli che si vedono negli aeroporti. Fatturava 30 milioni con 100 dipendenti. Adesso il 65% del fatturato viene dall’estero, il 5% del personale si dedica a ricerca e sviluppo e crea 100 nuovi prodotti ogni anno. Risultato: raddoppiati risultati, redditività e dipendenti».
Ha accennato alla velocità: ogni quanto tempo bisogna cambiare?
«Dipende dai contesti. Il cambiamento non è una linea retta, va a scalini».
E le aziende italiane sono pronte?
«La crisi ha accelerato la consapevolezza. Vieni forzato a tempi di reazione più brevi».
A proposito di velocità dei cambiamenti. I braccialetti di Amazon sono una fuga in avanti?
«Ho visto alla Bosch gli occhiali che ti guidano in magazzino. Dobbiamo uscire anche qui dal dogmatismo: l’uomo cerca l’evoluzione. Devi fare i passi in avanti: se poi ti accorgi che non va bene, fai sempre in tempo a ritornare indietro. Non puoi sottrarti al futuro».
Che idea si è fatto della flat tax?
«Se si vuole andare verso la flat tax, lo si deve fare in maniera graduale. Perché comunque genera un buco nel bilancio. Serve pianificazione e progressione».
Come giudica i passaggi generazionali nelle aziende italiane?
«Ho visto padri che non hanno trovato adeguate successioni, ma altrettanti che non sono riusciti a capire le caratteristiche dei figli; forse perché cercavano di fargli indossare un abito su misura. Magari nel frattempo la moda è cambiata e il figlio ha spalle diverse, e forse il figlio conosce lo stile attuale meglio del padre».
E la sua avventura in Benetton Group? Lei era reduce da molti successi con la 21 ed è un esperto di passaggi generazionali: ma lì dopo pochi mesi se ne è andato. È sembrata quasi una fuga. Sono passati 5 anni: che cosa è successo?
«Bisogna partire da lontano: quando sono tornato da Harvard a 27 anni avrei dovuto occuparmi della diversificazione nello sportswear. Ma con il professor Porter avevo capito che quel mondo sarebbe cambiato, e che il cambiamento era perfino più importante della buona gestione. Purtroppo ero stato facile profeta: alla fine la grande distribuzione è arrivata e ha messo in difficoltà il settore».
Quindi?
«Quindi quando mi hanno spiegato che avrebbero continuato ad applicare il vecchio modello, ho preferito costruirmi una mia strada».
Poi però dopo vent’anni è ritornato in Benetton, prima come vice e poi come presidente.
«Come vicepresidente ho affiancato mio padre e l’amministratore delegato che lavorava con la famiglia da trent’anni. In quegli anni ho condiviso con loro le deleghe e sperimentato le idee che avevo in mente sul futuro dell’azienda. Mi hanno chiesto di diventare presidente ad aprile 2012 ma già a novembre ho scritto all’Ad della Holding per dirgli che non ero più interessato».
E perché?
«Perché se uno deve guidare, guida: non devono esserci troppe mani sul volante. Quindi nel 2013 ho lasciato la gestione che è stata assunta da Edizione. Non è questione di presunzione o di cattivi rapporti, anzi; ho sempre avuto con tutti, anche con i manager o l’amministratore delegato, intese straordinarie per affetto e rispetto. Ma quando ho capito che la troppa passione di tutti portava a non concentrarsi sul futuro, ho preferito farmi da parte. Senza problemi. Il mio lavoro era ed è qui a 21 Investimenti».
Come giudica il rientro di suo padre Luciano alla presidenza di Benetton Group?
«Come ho detto sono fuori dall’operatività dell’azienda da 5 anni, non conosco nei dettagli l’attuale situazione. Ma lo vedo come un interessante momento di discontinuità. Una bella sfida: se ci si organizza bene, potrebbe venir fuori un bel risultato. Può essere un fattore scatenante di una nuova energia: io sicuramente faccio il tifo, sarebbe importante per tutti ed in particolare per mio padre. Anche se ormai sono in un’età in cui mi sento più padre che figlio».