la Repubblica, 10 febbraio 2018
Candid Camera e i suoi nipotini populisti
Sbadigliando, un operaio di Kansas City arriva come ogni mattina al suo armadietto. Lo apre per appendervi il giubbotto, ed ecco uscirne in carne e ossa una contorsionista: «Ti eri scordato d’avermi lasciata qui dentro?».
Cosa ci racconta il settantesimo compleanno di Candid Camera, inventato da Allen Funt nel 1948, subito dopo il congedo dai reparti radio militari? Fu uno dei più antichi e longevi reality show della televisione americana: gente qualsiasi trasformata in protagonista involontaria di siparietti comici, senza preparazione e senza accordo alcuno. Appunto: lo show della realtà, cosiddetto perché si contrapponeva a quello della fiction, in cui tutto invece appariva studiato, privo di contrattempi, fissato in una forzatura contraffatta del caos. Ed è facile risalire al motivo che ne determinò la nascita: fino dagli albori, l’elettrodomestico televisivo si candidava a diventare un’estensione catodica del desco familiare, e dunque necessitava di un riflesso speculare per cui la casalinga del Missouri non si sentisse reclusa al di qua dello schermo, ma si vedesse talvolta celebrata come diva dell’etere. Incredibile a dirsi, fu proprio per dare un brivido di gloria alle massaie che nacque il fertile filone dei reality, oltre mezzo secolo prima dei clamori del Grande Fratello: era l’aprile del 1945 quando Ken Murray si inventò Queen for a day, trasmissione radiofonica in cui banalmente intervistare madri di famiglia e vedove di guerra, chiedendo loro di far origliare l’America fra pannolini puzzolenti, stoviglie da asciugare e un’immancabile apple pie nel forno. Si rivelò un record di ascolti, tanto più se il tono suadente di Jack Bailey spingeva l’amazzone di turno ad allentare le difese e cedere alle lacrime parlando del marito con la pupa o del pupo con la scoliosi.
Se per noi è tutto già visto, allora fu un’autentica rivoluzione. E difatti il passaggio allo schermo televisivo fu velocissimo, con tanto di applausometro per premiare la migliore (peggiore) fra le disperate in lizza, con un lauto assegno dello sponsor.
Naturalmente questa apoteosi della verità non fu priva di effetti collaterali, iniziando a serpeggiare il dubbio che gli autori ci mettessero del loro, o che addirittura nel parterre delle regine (incoronate di bigodini) si celassero attrici provette, campionesse del pianto on demand. Insomma, eravamo nel primissimo Dopoguerra ma già si palesava il germe patogeno che ammorba i nostri reality, con la fatidica domanda «ma non sarà tutto preparato?».
Di certo non fu affatto preparato l’episodio che quasi per caso lanciò un ulteriore boom della tv-verità, stavolta declinata sul versante più perverso: correva l’inverno del 1957, e mentre un giovane Woody Allen si avviava a collaborare con Candid Camera, Abc mandò inavvertitamente in onda un’intervista shock al travestito ventiduenne Darrell Kahler. Il ragazzo descrisse un girone dantesco di baratri familiari, violenze, alcol, droga, e lo fece con toni talmente spudorati da sollevare un’onda di protesta in tutta l’udienza televisiva. Ma siccome la protesta garantisce anche audience, quella sera nacque di fatto un’altra pietra miliare della reality-tv, il format Confession in cui Jack Wyatt si diede a intervistare centinaia di stupratori, prostitute, pluriomicidi e chi più ne ha più ne metta all’insegna del «100% senza finzioni». Il filone, peraltro, è tutto fuorché esaurito come dimostra in Cina Interviews before execution, in cui la giornalista Ding Yu firma toccanti ritratti di condannati a morte, meglio se un attimo prima di consegnarli al plotone: in onda fino al 2012 con una media di 40 milioni di spettatori ogni sabato sera, la trasmissione ha ottenuto esiti inattesi come quello di far diventare un’autentica star nazionalpopolare il matricida Bao Rongting.
E sono state decine, negli anni, i tentativi più o meno riusciti di portare sullo schermo storie reali, prive di apparenti filtri narrativi: i broadcast americani ci hanno provato con ogni categoria, dagli sportivi nello spogliatoio alle camerette coi figli dei divorziati, dai poliziotti di quartiere agli occultisti in seduta spiritica. Fino ad arrivare a quel visionario olandese, tale Joost Tholens, che alla fine degli anni ’80 concentrò sette matricole in un appartamento per studenti di Amsterdam e ne spiò le quotidianità per vari mesi. Il progetto andò in onda per l’emittente cattolica dei Paesi Bassi, ma si risparmi facili battute chi pensa che questa collocazione ispirasse a Tholens (come pure fu) l’idea del Confessionale. Resta il fatto che il format venne notato all’estero e acquistato a peso d’oro (allo stesso modo in cui fu rilevato dagli svedesi quello che sarebbe diventato L’isola dei famosi). Di fatto, viene da dire, sono tutti figli e nipotini di Candid Camera, a cui è impossibile non guardare con affetto. Perché la verità è che anche noi – più che mai, anzi – siamo contagiati da una pretesa di guardare la realtà in faccia, senza trucchi. Questo nostro tempo è ossessionato da una mania perversa della purezza, in nome della quale non solo combattiamo crociate contro l’olio di palma e i conservanti alimentari, ma ci scagliamo furenti contro ogni presunta forma di manipolazione. Tutto ciò che prevede una mediazione altrui ci sembra sinonimo di alterazione, e non per caso versa in crisi la stessa democrazia rappresentativa in cui tutto si fonda sulla delega.
Candid Camera si colloca agli albori di questa sfiducia, oggi divenuta insostenibile; Candid Camera rifiuta gli attori come noi rifiutiamo i politici. Nasce là, in quella sete di reality, questa irresistibile pulsione a squadernare agli altri la nostra minuscola quotidianità di animali domestici e di rotte vacanziere, immortalando ai posteri la pausa-sigaretta coi colleghi, le candeline della zia centenaria e i disperati tentativi di cucinarci una paella valenciana. Solo che nessuno a un tratto ci sveglia per dirci: «Basta: sorridi, è finita. Eri su Candid Camera».