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 2018  febbraio 11 Domenica calendario

Intervista a Enrico Intra

Non insegna ma tutti lo chiamano maestro. Distratto nel pensiero e nel vestire Enrico Intra si aggira nella “Civica Scuola di Jazz” che coordina e che ha fondato insieme a Franco Cerri e altri due appassionati. Lo seguo mentre sgambetta energico tra i corridoi delle aule: allievi in attesa della lezione, altri che l’hanno da poco finita. Qualche nota di un sax rompe il ron ron di una mattinata alla periferia di Milano, sulla strada per Linate. Segno che non essere al centro della città non è poi così male. «La scuola è nata dalla nostra passione per il jazz ed è stata considerata così importante da essere parificata all’attività di un conservatorio», dice con una punta di orgoglio. Sediamo attorno a un tavolo e quando parla poggia le mani con le palme all’ingiù. Come fosse alla tastiera di un pianoforte. Quel modo di dire le cose a mezza voce mi fa pensare che le parole evaporino troppo in fretta perché valga la pena scandirle bene. Quest’uomo, considerato uno dei grandi pianisti del jazz, sembra fregarsene della propria storia, soprattutto di doverla raccontare a un estraneo. È come se parlasse a sé stesso. Ogni tanto dice: le arriva la mia voce? Mi limito a sorridere. Aspetto che si apra un varco nel muro di spiegazioni tecniche e musicali.
Cosa deve fare in più o di diverso una scuola di musica da una normale?
«Evitare che escano allievi tutti uguali: bulloni seriali che contraddicono il principio basilare del jazz: rompere le regole».
Privilegia l’anarchia musicale?
«Si cerca un po’ di originalità in chi forse la possiede e magari non lo sa. Mi ritengo una specie di Pierino del jazz. Ma anche un rabdomante. Nel dopoguerra imitavamo gli americani. Ci siamo formati sui primi dischi swing di Louis Armstrong, Duke Ellington, Benny Goodman. Il mondo classico del jazz: un Walhalla abitato da déi inarrivabili. Poi ci fu la svolta del Bebop con Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Bud Powell. I dischi arrivavano per nave. I pianisti che attraversavano l’oceano ci rifornivano di questa musica. Avevo un fratello più grande appassionatissimo di jazz. Devo a lui se sono entrato in questo mondo».
Sta parlando di Gianfranco Intra?
«Andò via da casa perché nostro padre, autista privato, considerava inconcepibile un figlio musicista. Erano anni duri e bisognava portare a casa soldi non sogni o peggio ancora velleità artistiche. Gli sono grato perché ha rischiato ed è riuscito ad aprire una strada. Quando è venuto il mio turno, il vecchio mi ha guardato con occhio rassegnato. Il più lo aveva fatto mio fratello».
Come sono stati i rapporti tra di voi?
«All’inizio era felice di coinvolgermi nel suo grande amore. Poi quando si accorse della mia predisposizione si infastidì. Chiudeva il pianoforte a chiave con la scusa che glielo rovinavo. Dunque per un lungo periodo rapporti tesi. Poi un giorno mi confessò che aveva patito la mia bravura».
E lei?
«Lo abbracciai senza dirgli niente, almeno in quel momento. Poi ho capito che voleva chiudere quella partita sgradevole tra fratelli. Solo uno veramente grande può dire a un altro tu sei meglio di me. Fu generoso e non me lo aspettavo. Finì a quel punto la gara tra di noi». 
Non la sento del tutto convinto.
«Sono uno che se deve correre i cento metri, anche a ottant’anni vorrebbe stare sotto i dieci secondi e vincerli. E non è neppure una questione di agonismo, ma il fatto che più il tempo passa e più avverto il piacere di suonare da solo. Glielo dico consapevole che ho fatto cose straordinarie con altri».
Pensa al rapporto con Franco Cerri?
«È stato un personaggio imprescindibile dalla mia vita. Ma le racconto questo episodio che mi è accaduto pochi giorni fa in occasione del compleanno di Franco. Lui novantadue io ottantatré anni. Non proprio due ragazzini. Per festeggiare organizziamo un duo chitarra pianoforte. All’ultimo momento Franco non è potuto venire».
A quel punto?
«Decido per l’assolo. Chiunque altro si sarebbe rammaricato. Io ho l’onesta di ammettere che ero contento che Franco non fosse venuto. Ma cerchi di capire, non è per una banale questione di egoismo o di rivalità, che non c’è mai stata. Ho solo pensato che avrei potuto suonare anche per lui. E quella sera il pubblico ha percepito questa magia. Alla fine del concerto avevo le mani aggrappate ai tasti e poi lentamente si sono alzate. Sospese per aria. Ero lì curvo, vestito di nero, con le perle di sudore che scendevano. Nel silenzio della sala. Mi veniva da piangere. Perché la musica, il jazz, ha questo di straordinario ti scava dentro come nessuna immagine o parola riesce a fare».
Dopo quella performance come si definirebbe?
«Riconosco di avere un ego debordante, incontenibile, sorretto dalla giusta presunzione che mi ha consentito di fare cose anche straordinarie e non in linea con i percorsi che di solito si praticano anche nella nostra musica. Quindi se mi dovessi definire in qualche modo, non dopo quella sera, ma in generale, direi che sono un uomo fortunato. Perché il talento è un soffio e basta niente perché si perda».
Ha mai avvertito questa minaccia?
«Direi ogni volta che mi siedo al pianoforte. Ogni volta so di trovarmi dentro un vuoto che va riempito. E posso farlo, certo, con il mestiere e con la tecnica che mi assiste; ma al tempo stesso so che ogni volta va forzato un limite perché quel vuoto non risuoni banalmente e in modo prevedibile».
È come ossessionato da una ricerca assoluta di autenticità.
«La porto dentro da sempre. A un certo punto ero a un bivio, siamo sempre davanti a qualche incrocio, potevo scegliere la classica o il jazz. Ma non avrei potuto suonare Bach o Beethoven con la sola costante applicazione dell’esercizio. Mi sarei perso su qualche strada improduttiva. Quando ho scelto il jazz l’ho fatto perché ai miei occhi era la musica senza confini, senza costrizione».
Improvvisazione, di questo sta parlando?
«L’improvvisazione probabilmente è uno stato di grazia applicato a un dettaglio, a un frammento, a un istante che fa saltare la partitura, i suoi tempi: la deviazione repentina e pur necessaria da un ritmo stabilito. È come trovarsi in un labirinto cercando col solo istinto la via di uscita. Si improvvisa non per chiudersi in qualche trappola ma per esplorare l’infinita potenzialità della musica».
Per questo a differenza di tanti jazzisti ha provato a coniugare generi musicali diversi?
«Posso partire dal Gregoriano o da Bach, o magari da Scarlatti e arrivare alla mia musica; o, per restare al Novecento, rileggere Stockhausen, Berio o Boulez come fossero loro stessi degli improvvisatori, nella convinzione che il jazz non è un linguaggio a sé stante ma parte di un linguaggio totale. Ecco la libertà di cui parlo: la necessità di non sottostare a codici stabiliti una volta per tutte».
Questa libertà l’ha portata anche a Sanremo?
«Non rinnego nulla, anzi. La vita è fatta di buoni e di cattivi compromessi».
Il suo come lo giudica?
«Partecipai a un festival nei primi anni settanta. Scrissi una canzone per Sacha Distel che giunse ultima. Non me ne pento, anzi. Ma certamente ho fatto cose più interessanti».
Tra queste la collaborazione con i più grandi jazzisti in circolazione. La punta di diamante è stato il rapporto con Gerry Mulligan. Che ricordo ne ha?
«Jazzista straordinario. Ma la definizione gli stava stretta. Anzi, se gli pronunciavi la parola “jazz” si incazzava. E aveva ragione. Mi fu presentato da Franco Fayenz. A quell’epoca, negli anni settanta, Mulligan veniva spesso in Italia perché si era innamorato di una ragazza, Franca Rota, che poi diventerà sua moglie. Non era un uomo semplice, a volte si lasciava travolgere dall’ira; lo vidi litigare violentemente con Chet Baker. Ma poi la rabbia lasciava il posto allo stupore e tornava l’uomo silenzioso che era».
E la sua grandezza?
«Nell’essere un musicista fondamentalmente libero. È stato uno dei pochi a creare una musica verticale».
Cioè?
«Aveva inventato un modo di suonare che non prevedeva l’armonia».
La collaborazione come nacque?
«Aveva ascoltato alcune mie composizioni e gli erano piaciute. La prima volta che lo vidi gli dissi che per me era fondamentale partire da una cosa semplice. Gli proposi Nuova civiltà un brano in cui sostanzialmente non c’erano divisioni tra le varie musiche. Capì al volo e allora preparammo in uno studio di registrazione il disco completo. Il mio ego dilagava anche perché l’anno prima, nel 1974, Gerry aveva collaborato con Astor Piazzolla. Ora era il mio turno. Dio era sceso con il sax baritono per dirmi suonerò per te».
Il vostro rapporto però non andò avanti.
«Avremmo anche potuto continuare. Ma la verità è che in quel momento Mulligan aveva soprattutto un maledetto bisogno di soldi. Sì l’arte; sì il rispetto per il mio lavoro. Ma sono anche convinto che a quell’intesa, che si rivelò comunque straordinaria, contribuì la sua precarietà economica».
Con chi altri ha lavorato?
«Un periodo particolarmente ricco di intrecci fu quando diedi vita al Derby di Milano. All’origine, prima che diventasse un cabaret, fu un luogo per il jazz. Venivano un po’ tutti: Flavio Ambrosetti, Niels Pedersen, Daniel Humair, George Gruntz. Una sera si presentò il “Modern Jazz Quartet” e proposi al vibrafonista del gruppo, Milton Jackson, di fare un disco insieme. Ma lui era sotto contratto come strumentista. Alla fine trovai il modo di ingaggiarlo come cantante».
Perché il Derby divenne un’altra cosa?
«Perché il cabaret è molto più popolare. Ora sento dire che il Derby lo inventarono altri. Ho ancora la lista dei pagamenti agli artisti che invitavo. Accanto al nome di Enzo Jannacci c’è la cifra di 15 mila lire! Allora, parlo del 1962, il locale si chiamava “Intra’s Derby Club”. Me l’offrì Gianni Bongiovanni, zio di Diego Abatantuono e ristoratore di professione. Sono passati tutti da lì: ad ascoltarci venivano perfino i giocatori dell’Inter e del Milan. Il vecchio Angelo Moratti, presidente dell’Inter, invitò me e Cerri a suonare nella sua villa. Venivano spesso Giorgio Strehler e Paolo Grassi. A volte si esibiva anche Ornella Vanoni».
Paolo Conte?
«Non lo ricordo al Derby. Ma andai a trovarlo ad Asti nel suo studio di avvocato, proponendogli qualche apparizione. Sapevo della sua passione per il jazz. Fu cortese, non disse no, ma alla fine non si è mai fatto vedere. Credo che avesse talmente tante cose dentro che riteneva superflua la comparsa su un palcoscenico come il nostro».
Lei ha ancora molte cose dentro?
«Vivo per tutto quello che ho dentro e che traduco. Ho da poco preparato una raccolta in cui c’è anche un pezzo che si chiama Gillo, dedicato a Dorfles. Ho letto un suo libro sugli intervalli che mi ha conquistato».
Cosa pensa dei suoi centosette anni?
«Non so se abbia fatto un patto con il diavolo. Ma c’è qualcosa di incredibile. Che mi trasmette quasi un senso di angoscia».
Cosa teme più di tutto?
«Ho paura di quasi tutti gli animali e in particolare ho la fobia delle formiche. Mi angoscia sapere che possono infilarsi ovunque. Per il resto no. Ho sofferto tantissimo per la morte di mia madre e per quella di mio fratello. Negli ultimi tempi si rifiutava di vedere chiunque. Io ebbi la presunzione di potergli parlare. Era incazzato con tutti. Se penso alla morte la vedo con i suoi occhi. Per il resto non voglio soffrire, l’ho detto a mio figlio, quando è il momento me ne voglio andare con dignità».
Il suo ego l’accompagnerà?
«Non c’è Io che possa rivaleggiare con la fine. Può solo contemplare le cose che la vita gli ha dato e gli ha tolto. Ho realizzato tantissime cose. Ho perfino recitato una parte nel film La vita agra.
Mi sono interessato di cinema muto, sperimentandone la ricchezza in rapporto alla musica. Ho usato le voci di Carmelo Bene e Giuseppe Ungaretti. Sperimento. Ho raggiunto un’età in cui posso dire e fare ciò che voglio. Anche quando suono non mi esercito più al piano. Esca quello che deve uscire. Sono un misto di contraddizioni. C’è l’ego da una parte. E dall’altra mi sento umile e naif. Ma lo scriva con lettere maiuscole, altrimenti l’ego si offende».