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 2018  febbraio 11 Domenica calendario

Dipingere Raffaello

Bergamo anticipa il quinto centenario della morte.
Mettendo in mostra i capolavori e le tele che ispirò a molti artisti dall’Ottocento fino a oggi.
E che lo presero a modello. Letteralmente.
CITTÀ: BERGAMO LUOGHI: GAMEC E ACCADEMIA CARRARAINDIRIZZI: VIA SAN TOMASO 53 E PIAZZA CARRARA 82 ORARI: 9,30- 19, CHIUSO IL MARTEDÌBIGLIETTI: 12 EURO, RIDOTTI 10DURATA: FINO AL 6 MAGGIO
Tra due anni cade il quinto centenario della morte di Raffaello, che morì il 6 aprile 1520 a soli trentasette anni. L’Accademia Carrara di Bergamo ha voluto giocare d’anticipo sul profluvio di mostre che lo celebreranno. D’intesa con la Galleria d’arte Moderna e contemporanea (GAMeC), con cui da tempo condivide molteplici iniziative, ha realizzato una stimolante esposizione, ricca di settanta opere: Raffaello e l’eco del mito a cura di Maria Cristina Rodeschini, Emanuela Daffra e Giacinto di Pietrantoni. Il progetto ha preso spunto da una delle più fulgide gemme della raccolta di capolavori di cui si fregia la Carrara: il San Sebastiano di Raffaello. Stranamente poco studiato, benché universalmente riconosciuto come uno snodo cruciale del percorso giovanile del Sanzio, questo dipinto è stato sottoposto a un’indagine capillare, che è partita dall’importante restauro conclusosi nel 2014, ma si è allargata a ogni altro aspetto – iconografico, stilistico, museologico –, prefiggendosi l’obiettivo di approdare a un’aggiornata ricostruzione della vexata quaestio della formazione e della folgorante carriera giovanile di Raffaello, ma anche di raccontare il mito ottocentesco del genio urbinate, proiettandolo fino a noi.Da questo progetto, cui si è aggregato anche Giulio Paolini, autore di un’opera realizzata appositamente per l’occasione, in cui la citazione del San Sebastiano raffaellesco è il punto di partenza per un’analisi del rapporto biunivoco che si instaura tra opera e spettatore, è scaturito un percorso espositivo denso e polifonico, che ha inizio in una sala della Carrara, per poi dislocarsi nell’edificio della GAMeC, scandendosi in cinque sezioni. Quando Raffaello nasce, nel 1483, a Urbino il grande Federico da Montefeltro è morto da pochi mesi. Il padre di Raffaello, Giovanni Santi, pittore di buon livello ma anche colto letterato al servizio del duca, sta scrivendo per lui un mastodontico poema encomiastico, noto come Cronaca rimata, in cui la rievocazione di un viaggio a Mantova gli offre il destro per una digressione sulla pittura moderna, conclusa da elenco dei maggiori artisti del suo secolo. Santi morì nel 1494, quando Raffaello aveva solo 11 anni, ma ebbe il tempo di trasmettere al precocissimo figlio, oltre ai rudimenti del mestiere, soprattutto questa concezione umanistica del ruolo di artista-letterato, unitamente a un orizzonte normativo in cui ritroviamo i nomi dei tre pittori che maggiormente calamitarono lo sguardo del giovanissimo Raffaello: Piero, Signorelli e Perugino. In mostra, questa fase aurorale è testimoniata da alcuni prestiti eccezionali di opere di Santi, Signorelli e Perugino, cui si aggiungono le opere di un pittore che attirò molto presto l’attenzione di Raffaello, il Pintoricchio, che rappresenta una sorta di versione più ornata, graziosa e sfavillante del peruginismo.
Il giovane Sanzio ereditò la fiorente bottega paterna, gestita dal più sperimentato collaboratore di Santi, Evangelista da Pian di Meleto, il cui nome compare nel contratto del dicembre 1500 in cui il diciassettenne Raffaello, già definito magister, s’impegna assieme a lui a eseguire una pala per una cappella di Città di Castello.
La mostra consente di seguire passo passo la vorticosa attività del giovane, che era sommamente ricettivo, una “spugna” pronta ad assimilare gli stimoli più diversi, amalgamandoli e facendoli propri. Succhiò tutto ciò che poteva servirgli del Pintoricchio, per poi volgersi nuovamente al Perugino, imitandolo così bene da apparire indistinguibile dal modello, e infine liquidare il suo debito nel 1504, quando dipingendo lo Sposalizio della Vergine di Brera, prese a prestito un’idea dell’umbro, ma la rielaborò in modo talmente geniale da rendere in un sol colpo il prototipo vecchio d’un secolo.Il San Sebastiano, che ancora si compiace di adornare con squistezze pintoricchiesche un modello già saturo di plastiche volumetrie di matrice peruginesca, fotografa il momento di trapasso dall’uno all’altro maestro umbro, prima del definitivo superamento di entrambi verso una baldanzosa autonomia in cerca di nuove sfide a Firenze. La mostra procede con un’intrigante sezione dedicata alla fortuna ottocentesca del maestro urbinate, che viene ripetutamente raffigurato dai pittori dell’epoca nelle sue varie declinazioni – castamente puriste e “nazarene”, o a tinte più passionali di matrice romantica, con gustose sequenze di tele ispirate alla leggenda vasariana degli stravizi erotici perpetrati con l’amata “Fornarina”, che ne avrebbero causato la morte, sia pure dopo un pronto pentimento e in odore di santità. L’ultima sezione si sfilaccia un po’ nel documentare il revival del Bello post-moderno, preannunciato dal De Chirico pictor optimus e dal Picasso ingresiano, giungendo ai giorni nostri, tra rivisitazioni concettuali, in cui giganteggia di nuovo Giulio Paolini nel descrivere lo sguardo frammentato dello spettatore nel collage di diciannove fogli sparsi su una parete bianca in ( Non) senso della visita (2015), mentre il tributo a Raffaello è declinato in varianti narcisistiche dell’Autoritratto giovanile degli Uffizi da Luigi Ontani in una fotografia su tela del ’72, e da Francesco Vezzoli, che si atteggia a ironico vate in un selfie del 2013, irradiato dai led di una light- box.