la Repubblica, 11 febbraio 2018
I libri sono da prescrivere: come le vitamine E. Non prendiamocela con i serial. Intervista a Antonio Sellerio
Racconto ad Antonio Sellerio che sul treno Genova-Roma mi si è seduto di fronte un giovane tatuato, anche nelle nocche, con le scarpe fosforescenti e i pantaloni neri della tuta e che, senza volerlo, il mio cervello lo ha classificato un po’ tamarro. Poi però quel giovane ha tirato fuori dallo zaino un libro. Lo ha aperto in una pagina segnata con l’orecchietta, si è messo a leggere e non ha smesso più. Era Bel Ami nell’edizione Feltrinelli. E allora... «...E allora hai capovolto il giudizio. Hai deciso che era migliore del suo vestito e dei suoi tatuaggi o hai cambiato parere anche sui tatuaggi?».
Anche i tatuaggi mi sono diventati amici quando ho scoperto che era pure gentile. E su “Bel Ami” torneremo alla fine.
«I tatuaggi ormai non significano nulla. Ma il punto è che a parità di condizioni una persona che legge è migliore di una che non legge».
Ma conosco intellettuali molto malvagi. Il papà mugnaio di un colto collega diceva al figlio: basta con questi libri, ti fanno male.
«La cosa che rende la Shoah peggiore di tanti massacri nella storia umana è che l’hanno fatta i tedeschi, il popolo più colto dell’epoca».
È questa la differenza con la barbarie di Stalin?
«Il popolo russo ha dato moltissimo alla cultura, ma in Stalin c’era la ferocia selvaggia della campagna. Quella tedesca invece era ferocia sofisticata, organizzata, moderna, industriale. Heidegger e Mies van der Rohe, Fritz Lang e Jünger. Gli aguzzini di Auschwitz ascoltavano Beethoven e Wagner e leggevano Goethe».
Dunque la cultura rende più efficace anche la ferocia?
«Perché offre strumenti e confeziona retoriche di persuasione. È provato anche dai neurologi che la lettura su carta migliora il cervello».
In via Siracusa, nella casa editrice che inventò il blu-Sellerio, “il colore dei libri”, tu e tua sorella Olivia non avete cambiato nulla.
«È vero, ci sono ancora il divano di Sciascia, la stanza di mia madre e dall’altra parte quella di mio padre».
Eppure il catalogo non è un santuario, ma ha il passo svelto e lungo del suo editore, alto un metro e novantadue.
«Non ci sono cantanti, attor comici, domatori di pulci, presentatori tv».
Neppure un linguista in difesa del punto e virgola mentre la lingua pubblica si degrada in turpiloquio? Neppure un raffinatissimo cuoco nel tempo della lievitazione del cibo in food?
«Neppure uno».
Il marchio è una grande bandiera dell’impresa in Sicilia, anche se i rapporti tra Palermo e la Sellerio...
«...Sono da sempre complicatissimi. Oggi però la città attraversa un momento speciale: non ci sono più i terribili veleni».
Quelli che spingevano tuo padre Enzo a rispondere così: “Io non abito più a Palermo. Io abito a casa mia”.
«È ovvio che Palermo resta Palermo. Ma è un po’ come a Milano dopo la peste. La pioggia che, scriveva Manzoni, “portava via il contagio”, di sicuro non poteva “restituire ai viventi tutti i viventi”, e però “almeno non ne avrebbe più ingoiati altri”».
Palermo è capitale della cultura: e questo la rende migliore?
«Abbiamo i riflettori puntati: vedremo. Posso dire che la cultura che ha migliorato Palermo è quella dell’accoglienza. Palermo ha trentaduemila immigrati residenti regolari, mille in accoglienza straordinaria, e 450 minori non accompagnati sono a carico del Comune. Sono numeri da record. E senza conflitti sociali, senza razzismi, senza guerre tra poveri».
Lo slogan del sindaco Orlando è:“Siamo tutti palermitani”.
«Non è solo sentimento sociale. C’è anche una capacità organizzativa che va studiata ed esportata: almeno cento associazioni di volontariato, mense, vestiti, pernottamenti: funziona».
Per l’Istat metà degli italiani nel 2017 non ha letto un libro.
«Lasciamo stare le statistiche che quanto più inconfutabili sembrano tanto più bugiarde risultano. Di sicuro si legge di meno, e non solo in Italia. Ma non è detto che tra dieci anni si legga ancora meno; non è detto che tra dieci anni non si legga di più».
Si diffondono le scuole di scrittura. Più scrittori che lettori?
«Anche se le scuole di scrittura non formano grandi scrittori, sicuramente aiutano a scrivere meglio, magari le mail, ma meglio».
Berardinelli sul “Foglio” dice che non si legge più neppure all’università. Bastano i manuali. La memoria è nel computer.
«Arriva a dire che ormai non leggono neppure gli studiosi di letteratura. Non so se è vero. Forse come provocazione».
Ma davvero le immagini valgono meno dei libri? Simon Shama fece per la Bbc “A History of Britain”, sul quale si formano i ragazzi inglesi. Con i documentari di “Apocalypse” sulla Prima e la Seconda guerra mondiale mio figlio è diventato appassionato di storia. In Italia c’è poco. Ma il successo di Alberto Angela è incoraggiante.
«È vero, figurati se non capisco la nuova forza delle immagini io che sono figlio di Enzo Sellerio, fotografo».
Ricordi l’incipit di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”?
«Certo: “Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo... Rilassati. Raccogliti. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la tv accesa. Dillo subito agli altri: ‘Non voglio vedere la televisione!’. Alza la voce, se no non ti sentono: ‘Sto leggendo! Non voglio essere disturbato’”. Chissà cosa aggiungerebbe Calvino. Oggi appena apri un libro ti arriva un sms. Lo leggi, rispondi e, mentre ci sei, controlli la posta e le notizie. Quando torni al libro arriva un altro sms. Ci sono scrittori che per scrivere i loro libri inseriscono un software di disconnessione, un po’ come Alfieri che si legava alla sedia: “Volli, sempre volli, fortissimamente volli”».
Guardi le serie televisive? (A questo punto il cretino di Flaubert aggiungerebbe: “stanno mettendo in crisi il cinema”).
«Di sicuro fanno concorrenza al libro. Sono fatte bene: molti soldi, trame avvincenti, attori bravissimi. E proprio come i libri le ritrovi quando vuoi: prima in tv, poi sul computer, e il pezzo che manca lo guardi sul telefono mentre vai da qualche parte. Hanno durata e profondità del libro. Ma non ti isolano come fa il libro. Per esempio Boardwalk Empire è l’epica del gangsterismo di Scorsese e ha la forza di tenerti sveglio per tutta la notte. Reed Hastings, il signor Netflix, dice che il suo concorrente principale non è il libro, ma il sonno».
E però una volta erano i libri a tenerci svegli.«Chi ha detto che non accada più? Io non ne sono convinto».
Le serie tv rendono migliori o peggiori? In Italia si dibatte su “Gomorra”: proprio perché ben fatta spingerebbe all’emulazione.
«Le ultime lettere di Jacopo Ortis divennero il testo di riferimento di molti giovani iper-romantici che avvertivano l’inadeguatezza al mondo. Ma chi può dire che Ortis armò quelle mani. I dibattiti sull’emulazione sono antichi e diventano attacchi alla libertà di espressione».
Anche Montalbano è seriale.
«Ma è diverso. La tecnica è quella antica della riduzione, linguaggio classico, leggero e mai nervoso. Domani comincia un nuovo ciclo di due puntate e poi arriverà in tv La mossa del cavallo. Camilleri è il maggior successo letterario italiano e Montalbano è il maggior successo tv italiano. Credo che gli studi su Camilleri debbano ancora cominciare».
C’è più cultura di qualità nelle serie tv che nei libri?
«L’importante è la lealtà verso il lettore».
Parli delle recensioni che spesso sono marchette?
«Parlo in generale della comunicazione. Mai promettere al lettore quello che poi non troverà. La slealtà fa malissimo al libro».
I best seller sono nocivi?
«Spesso i libri che ci piacciono di meno raggiungano più lettori».
Ci sono libri che sarebbe meglio non leggere?
«No. Se ne leggi uno cattivo magari ti incuriosisci e ne leggi un altro migliore e poi ancora un altro. Cominci con Le 50 sfumature di grigio e arrivi al magnifico erotismo di Un amore senza fine di Scott Spencer. Nella lettura bisogna crederci, come ci ha creduto Amazon, il più grande negozio non negozio, che ha cominciato con i libri. Jeff Bezos capì che i lettori di libri erano i migliori compratori del mondo».
Che significa crederci? Il Kulturstaat, il modello tedesco – molto danaro pubblico e nessun mercato libero – è sotto accusa non solo perché oneroso ma perché produce troppo mostrando poco di nuovo.
«L’Italia è un altro mondo: musei non visitati, teatri vuoti, libri non letti e librerie fallite. È un dovere proteggere la cultura, renderla fruibile, cominciando con aprire biblioteche e librerie a centro sud».
Bruno Zevi e Giulio Einaudi nel 1967 firmarono un progetto contro questa mancanza nel Sud e nelle periferie del nord. Volevano aprirne cento. Zevi fece un prototipo di biblioteca che sembra presagire il rammendo di Renzo Piano.
«Diventerebbero subito dei veri centri di aggregazione sociale, migliorerebbero i quartieri, funzionerebbero come volani di sviluppo urbanistico: la cultura come gentrificazione. Dicono che in Sicilia non si legga. Ma quella vecchia iniziativa della Newton Compton dei classici a mille lire ebbe un grande successo proprio in Sicilia».
Meglio le biblioteche o i festival?
«Non c’è conflitto. I festival e gli “eventi” vanno incoraggiati. In Francia il presidente dell’Istituto del libro ha come obiettivo consentire a ogni studente di incontrare almeno una volta l’autore che ama».
Nel sud le scuole ci provano. A Bari lavorano con Laterza. A Catania, la mia città, sono formidabili le iniziative del liceo Cutelli.
«Andrebbero sostenute dal ministero. Bisogna coinvolgere i pediatri».
Dovrebbero prescrivere i libri insieme alla vitamina B12?
«Sì. Leggere fa bene. Un po’ lo fanno già con l’iniziativa “Nati per leggere”. I pediatri sono l’ultima autorità a cui credono gli italiani».
Ci sono anche i cantanti, celebrati più di Manzoni e Sciascia.
«E trovo giusto venga riconosciuto valore di poesia alle canzoni. Non mi stupisce il Nobel a Dylan ma canzoni e libri restano mondi lontani».
A Macerata c’è un rapper, Tosse grassa, che nel 2015, aveva raccontato e profetizzato lo sparatore: “Sto costruendo una palizzata /per difendermi dai negri di Macerata/ Lavoro, non spendo, accumulo milioni /devo risparmiare per comprarmi le munizioni”. E ancora: “Forza Juve,/ viva il duce, / Vasco Vasco, / alé alé”.
«Le canzoni a volte acchiappano l’aria del tempo. Come Bel Ami».
Ecco, “Bel Ami”: fresco di treno, l’ho citato discutendo a proposito di un noto giornalista, che ha preferito candidarsi, con un’elegante signora del Pd. Che non solo non l’aveva letto: non sapeva cos’è “Bel Ami”.
«Scommetto che le hai proposto di tatuarsi».
Sì. Come una tamarra.