la Repubblica, 11 febbraio 2018
Di carta o su Facebook? Chi si rivede: la rivista
Quando gli intellettuali non possono fare nient’altro, fondano una rivista”, scrisse una volta Irving Howe. Era il 1954 e Howe sapeva di cosa stava parlando dato che aveva appena fondato Dissent, il magazine che da allora divenne uno dei riferimenti della sinistra liberal americana. Altri tempi? Adesso qualcuno potrebbe pensare che poche cose sono più novecentesche delle riviste, dell’idea stessa di rivista: fantasma da archeologia editoriale, vestigia di un tempo che, osservato dall’oggi fatto di social network e influencer, appare tanto lontano quanto a rischio di malinconico romanticismo. A proposito di romanticismo: è di un paio di anni fa lo splendido film documentario The 50 Year Argument che Martin Scorsese dedicò ai cinquant’anni della New York Review of Books e al lavoro di Robert B. Silvers, l’editor che, dagli anni Sessanta fino alla sua morte nel 2017, ha commissionato e editato ogni articolo del giornale. Invece, sul fronte brutte notizie, nel 2016 cessano le pubblicazioni dello Straniero, la rivista di Goffredo Fofi.
Eppure, a guardarsi bene intorno senza malinconia o troppo romanticismo, quella che stiamo vivendo è una vera e propria età dell’oro delle riviste: c’è un’intera generazione sotto i quarant’anni di scrittori, critici, reporter, traduttori, intellettuali che, forse perché “non poteva fare nient’altro”, ha fondato una rivista. Certo, sono tutte esperienze molto diverse da quelle del passato che però con quelle condividono la voglia di raccontare la contemporaneità e provare a capirla. Insomma, in Italia e all’estero la rivista è (di nuovo) il formato più efficace, eccitante, e a suo modo economico, per partecipare alla vita delle idee. Non è un caso, allora, che proprio in questi giorni arrivi in traduzione italiana ( per l’editore fiorentino Black Coffee) Freeman’s, la nuova rivista di John Freeman. Dopo aver diretto per molti anni la storica Granta, Freeman – insieme a gran parte dello staff – ne uscì in polemica con l’editore, dando vita qualche tempo dopo a Freeman’s. Simile alla precedente per impostazione, una rivista antologica di racconti e saggi personali, ma diversa per l’apertura dello sguardo. Il tema di questo numero è “Scrittori dal futuro”. L’idea è quella di fare una mappatura delle voci più interessanti della nuova letteratura: la differenza è che la scelta non è limitata agli autori di un solo paese o di una sola lingua ( proprio su Granta ogni decennio usciva l’attesa e “canonizzante” lista dei “Best of young british novelists”) ma è davvero globale, passando dalla messicana Valeria Luiselli alle giapponesi Mieko Kawakami o Sayaka Murata, l’americano vietnamita Ocean Vuong o il brasiliano Daniel Galera. E in fondo è di pochi giorni fa la notizia che il National Book Award, uno dei più importanti premi letterari americani, ha istituito un premio anche per la migliore opera in traduzione: global novel, almeno in ambito letterario, non è più un insulto. La cosa che più colpisce è quanto anche oggi, quando il mercato editoriale dei diritti si estende attraverso una rete fittissima di agenti, scout, flussi ininterrotti di mail, la rivista resti comunque uno dei più utili “elenchi telefonici” dove scoprire scrittori nuovi.
Se resta immutata la loro funzione, quello che cambia con le nuove riviste è tutto quello che gli sta intorno. La prima differenza con il passato è, ovviamente, il posto in cui andarle a prendere: non più soltanto l’edicola o la libreria, ma la Rete. Di sicuro non il dipartimento universitario o la sezione di partito. Infatti non si capirebbe un tale ribollire di riviste se non si tenesse in conto il restringersi di altri spazi: come quelli legati alla politica ( con la fine dei partiti come luoghi di elaborazione intellettuale e organizzazione della cultura) o all’università che, tra tagli e blocchi, spinge chi ancora ci lavora (o ci aspira) a tenere la testa concentrata nel proprio recinto specialistico. Non solo in Italia se si pensa che qualche mese fa la rivista di settore The Chronicle of Higher Education parlava di una “crisi dell’intellettuale accademico” e della nascita di un nuovo tipo di intellettuale pubblico, con le sue nuove testate di riferimento come n+ 1, Jacobin o The Baffler – tra le più influenti ( almeno le prime due viaggiano sui diecimila abbonamenti e siti web letti in tutto il mondo) oltre che per gli autori e gli argomenti anche per la grafica ricercata e per gli eventi organizzati per finanziarsi, a metà tra festival e vere e proprie feste.
Bisogna guardare alla letteratura anche per capire come sono andate le cose qui da noi. Il percorso iniziato nei primi anni Duemila dai blog letterari collettivi, come Nazione Indiana o Il primo amore, e più tardi minima& moralia o Le parole e le cose, è noto; minima& moralia in particolare ha allargato sempre più lo spettro dei propri interventi, raggiungendo per alcuni articoli i trentamila unici contatti. A cambiare le cose, a farle uscire dall’ambito letterario, è stato l’arrivo di Vice in Italia, nel 2006. Partita come rivista musicale a metà dei Novanta in Canada ma presto spostatasi a New York, Vice con i suoi pezzi vagamente hipster e dalla voce politicamente scorretta si è imposta raccontando la cultura giovanile e pop con un approccio “gonzo”, immersivo, che ha mantenuto anche quando, negli ultimi anni, ha iniziato a trattare temi politici e d’attualità. Una questione di stile. Ecco, se si dovesse indicare un elemento comune alle nuove riviste, quello che più di altri appare nuovo, è proprio il lavoro sulla scrittura. Un buon esempio è quello di IL o Prismo, che però ha cessato le pubblicazioni. Queste e altre sono state, negli ultimi anni, il luogo privilegiato dove scrivere e leggere personal essays (l’articolo, tra riflessione e racconto, che parte da un’esperienza personale o comunque cucito insieme dalla soggettività dell’autore) o il cosiddetto longform, un pezzo molto approfondito e molto lungo – anche decine di cartelle – che può vivere unicamente, o soprattutto, in Rete. Non solo per motivi di spazio: il fatto è che online ogni articolo, ogni saggio, vive allo stesso tempo sia dentro la rivista che fuori, autonomo, rimpallato di bacheca in bacheca dalle condivisioni su Facebook o Twitter. Ogni articolo o racconto, insomma, deve andare a cercare il proprio pubblico e, in un certo senso, conquistarselo, contendendosi l’attenzione di lettori sempre più distratti e infedeli. Anche perché, sul web, l’attenzione è denaro.
E i soldi servono, soprattutto quando si devono commissionare e pagare articoli o reportage lunghi decine di cartelle. La specificità di queste nuove riviste, almeno delle più interessanti, è proprio quello di uscire dalla logica volontaristica e gratuita del blog, e di costruire un prodotto in grado di sostenersi economicamente e muoversi sul mercato. Un modello economico sostenibile per fare editoria di qualità in Rete stentano a trovarlo le grandi media company internazionali, figuriamoci una piccola rivista. Ma è proprio nel mondo delle riviste che si sperimentano soluzioni alternative alla raccolta pubblicitaria. Per esempio rivolgendosi a un’istituzione che faccia da mecenate pur mantenendosi indipendente. È il caso del Tascabile, rivista online di Treccani che pubblica quotidianamente articoli che per lunghezza e profondità sono dei piccoli saggi su cultura, società e scienza. Altre volte le riviste gemmano intorno ai bandi delle fondazioni, come Che fare, a associazioni come doppiozero, scuole ( The Catcher, il magazine della Holden), interessi comuni, come Ultimo Uomo che ha diffuso in Italia un modo di raccontare e analizzare lo sport molto lontano dalle cronache giornalistiche a cui eravamo abituati. O, ancora, case editrici: Not è una rivista focalizzata sulla riflessione teorica e politica, controparte online dell’editore Nero di cui sono appena arrivati in libreria i primi volumi – a cominciare da quel Realismo capitalista di Mark Fisher oggetto di un culto diffuso da anni, attraverso la Rete appunto, anche Italia.Riviste che nascono online e poi diventano cartacee, o curano una collana di ebook, o pubblicano dei libri, o danno vita a festival e manifestazioni: l’online ha smesso da tempo di essere una riserva indiana ed è diventato il laboratorio principale in cui scrive e si forma una nuova leva di autori – per esempio Raffaele Alberto Ventura, una delle anime di Prismo, e la sua Teoria della classe disagiata (minimum fax), o Leonardo Bianchi che dall’esperienza dei reportage su Vice ha tratto La gente. Viaggio nell’Italia del risentimento ( minimum fax); dove si elaborano e collaudano idee, formati, scritture. Perché molti citano la frase di Howe riportata all’inizio, ma pochi dicono come prosegue: “fondare una rivista vuol dire anche qualcosa d’altro: significa pensare in comune. E pensare in comune può portare a dei risultati inaspettati”.