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 2018  febbraio 11 Domenica calendario

Addii e veleni alla Casa Bianca. Il flop dei consiglieri di Trump

Washington Volano, come foglie d’autunno. Cadono collaboratori e segretari, consiglieri politici e ministri, sono ormai venti in un anno, più di uno al mese. Uomini e donne scelti da Trump per essere i suoi badanti e poi costretti a immolarsi per proteggerlo. Alla corte del sovrano insicuro e collerico, ossessionato dalla nuvola temporalesca dell’inchiesta sul “Russiagate” che non riesce a dissipare, i soli garantiti e al sicuro dalla sua paranoia sono i parenti e affini, la figlia Ivanka, il genero Jared Kushner e la moglie Melania sempre più ombra inquieta e inquietante del Trump Reality Show. Ma ora anche il Gran Ciambellano, l’ex generale John F. Kelly chiamato a essere il “Badante in Chief” del boss come suo capo di gabinetto e ad arginare l’alluvione, fa sapere, e poi smentisce, e poi torna a sussurrare che anche lui, nonostante trentadue anni in servizio nei Marines, potrebbe arrendersi. “Dysfunction”, disfunzione, è la parola più usata per descrivere l’atmosfera di una Casa Bianca nella quale, come nelle trincee della Grande Guerra o negli acquitrini del Vietnam, si cerca di capire chi sarà il prossimo a cadere. Evitando di cadere con lui o lei.
Si cominciò subito dopo l’insediamento del 20 gennaio 2017 con il tourbillon dei licenziati o dimissionati. Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, ex generale anche lui, Mike Flynn, la persona che ha l’incarico strategico più delicato alla corte dei presidenti, rimase in carica per venti giorni e oggi è reo confesso di falsa testimonianza, per avere mentito all’Fbi sui suoi rapporti con il governo Putin. Era stato scelto da Trump nonostante gli insistenti avvertimenti della sottosegretaria alla Giustizia, Sally Yates e addirittura del presidente uscente Obama, che lo aveva sconsigliato al successore. La Yates fu licenziata, Flynn nominato e tre settimane più tardi cacciato.
Cominciò allora, dopo il fiasco del super consigliere, la ricerca disperata di “adulti”, di persone di senno e di esperienza che potessero limitare i danni dell’“Apprendista Presidente” che guidava una nazione come i suoi famosi reality show. Fu cacciato un grigio, umile funzionario di partito, Reince Priebus, che i repubblicani avevano suggerito come Capo di Gabinetto e sostituito col generalissimo Kelly, con l’incarico di controllare gli effluvi di tweet mattutini e soprattutto di limitare il via vai incontrollato nello Studio Ovale.
Parve, per un po’ funzionare, e una patina di normalità si depositò sulla Casa Bianca. Non era un ritorno alla dignitosa noia di “No drama Obama”, del cautissimo predecessore, ma sembrava almeno che finalmente una maestra fosse alla guida dell’asilo. Per poco. Se ne andarono o furono buttati fuori tre addetti alla stampa e propaganda, secondo la classica regola dei regimi nei quali le cattive notizie sono sempre colpa dei messaggeri, un ministro pizzicato a usare aerei privati con soldi pubblici, un direttore dell’Fbi, quel James Comey che ora collabora con il magistrato speciale sul Russiagate, il direttore dell’Ufficio per l’etica nel governo, incarico divenuto un ossimoro sotto Trump, lo strampalato ideologo della destra estrema, Steve Bannon detto “Steve lo Sciattone”, la responsabile del Centro per il controllo delle malattie, beccata a investire in aziende farmaceutiche e in produttori di sigarette. E poi arrivò la risacca del movimento di denuncia contro le molestie e gli abusi sessuali.
In questa settimana, sono stati costretti ad andarsere Rob Porter, capo della segreteria dal quale passano tutte le comunicazioni dirette al presidente che non aveva mai avuto la “clearance”, l’autorizzazione a maneggiare segreti di stato. Da mesi, fin dalla nomina in maggio, il generalissimo Kelly, sapeva che l’Fbi aveva segnalato le denunce per violenza domestiche, ma Trump lo amava e così, sia pure in modo diverso, lo amava la bella Hope Hicks, direttrice delle comunicazioni, che lo proteggerà fino alla dimissioni, pubblicando goffi comunicati in sua difesa. Fino a quando la foto della prima moglie con un occhio nero per le botte fu ripescata dagli archivi di polizia. Subito dopo ecco che, ieri, un altro dei suoi “baby sitter” assunto come scrittore per i suoi discorsi, David Sorensen annuncia le dimissioni per le accuse di violenza sulla moglie, argomento sempre delicatissimo in una Casa Bianca guidata da un presidente che fu registrato mentre si vantava di poter impunemente acchiappare le donne per le parti intime. E donna è la sottosegretaria alla Giustizia, Rachel Brand, nominata da Trump in maggio, dimissionaria anche lei. Per dedicarsi, dice, alla professione privata.
In questo turbine di teste che volano, ci si chiede chi sarà il prossimo a cadere, chi dovrà pagare il prezzo dell’imprevedibilità di King Donald, che scende dai propri appartamenti privati a fine mattinata immaginando complotti contro il sovrano. Altre teste voleranno per sacrificarsi e per impedire che la prossima testa a cadere sia quella del sovrano, nella sua solitudine.