Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  febbraio 11 Domenica calendario

La stagione in cui imparai l’arte di perdere tutto

E state, il romanzo di Leonardo Colombati ora in uscita per Mondadori, ha questo folgorante incipit: «Avevo tutto: una famiglia, i soldi, l’amore, il rispetto. E il Sea-Gull Hôtel des Étrangers. Non mi è rimasto più niente». Una catastrofe improvvisa. Una ricchezza bruciata, incenerita. Una disgrazia che manda in fumo relazioni che sembravano stabili, un equilibrio precario eppure paradossalmente tenace nella sua perenne volatilità. E poi un lavoro, svanito. Un luogo della memoria, distrutto. Persino la stima di una figlia, messa in discussione: lo scenario più terribile e angoscioso. Jacopo D’Alverno, il protagonista, sembra andare alla deriva dopo che un incendio ha devastato un albergo rosa a picco sul mare, un resort di lusso, confortevole, un po’ fuori dal mondo, e di cui aveva rilevato il comando quando il padre non ce l’ha più fatta. Lo raccoglie oramai a pezzi Astrid, la ragazza di cui Jacopo era follemente innamorato da ragazzo e che aveva tentato di conquistare, adolescente sventato, con una lettera in cui le comunicava di essere affetto da un finto tumore. Ora, dopo la catastrofe, lei lo porta in Norvegia ad assistere a due eventi emotivamente sopra le righe.
Uno è il concerto di Bruce Springsteen, di cui lo scrittore Colombati in persona è notoriamente smodato fan (insieme a Francesco Totti), e che rappresenta quasi una liberazione degli istinti compressi, la catarsi dionisiaca, l’abbandonarsi a una musica che è anche un movimento dell’anima, un ritmo insieme eccitante e familiare. L’altro è un evento pericoloso e perturbante, un incontro con l’orrore che rimpicciolisce drammaticamente ciò che è accaduto a Jacopo nel giorno della disgrazia per metterlo a contatto con l’incommensurabilmente spaventoso di un eccidio disumano. L’evento è il processo celebrato in Norvegia contro Anders Behring Breivik, il folle neonazista e suprematista bianco che nel 2011 aveva sterminato a Oslo e sull’isola di Utoya settantasette persone. Un episodio raccapricciante che tutti noi tendiamo a dimenticare per non fare i conti con la spaventosa ferocia con cui la strage venne compiuta. Breivik sbarcò sull’isola che in quel momento ospitava un campeggio di giovani laburisti e mise in atto la mattanza di quei giovani che fuggivano, si buttavano disperatamente in acqua, si nascondevano negli anfratti della boscaglia per non essere colpiti da un omicida che ne voleva uccidere quanti più fosse possibile. Una strage insensata e atroce, che mette l’umanità al cospetto degli abissi, del demoniaco, della perdizione. E Jacopo, a un certo punto, da dietro le transenne del pubblico incrocia lo sguardo gelido e crudele di Breivik. L’assassino non pentito lo fissa, lo fulmina con gli occhi ancora carichi di una spietatezza non placata. E Jacopo ne viene turbato nel profondo, attraversato da un brivido di spavento ma anche di torbida attrazione per qualcosa di indecifrabile nella sua smisuratezza apparentemente insensata.
Ecco, l’insensatezza di una strage di quelle dimensioni non ha niente a che fare con quella, pur dolorosa, che oscura gli orizzonti di una vita prigioniera della sua «normalità». Ma per il protagonista del romanzo di Colombati la distruzione del suo albergo e della sua stessa ragione di vita rappresenta un cataclisma che getta l’intera sua esistenza nell’insensato, nel marginale, nell’insignificante. Jacopo scopre che la sua vita è irrimediabilmente angariata da una serie impressionante di «conti in rosso». Scorrono nelle pagine del romanzo le persone che su di lui hanno contato in modo indelebile, le occasioni mancate, tantissime, i risultati meritoriamente acquisiti, pochissimi. Ma se c’è qualcosa che angustia la mente e lo spirito dopo la catastrofe che mette fine alla sua esperienza di dirigente di un albergo andato in fumo con un incendio devastante è la crisi nel rapporto con la figlia. Quando va a fuoco l’albergo, Colombati racconta una scena che richiama il Lord Jim di Conrad, l’appuntamento mancato con il coraggio, l’esitazione di fronte al pericolo. Il sospetto che lui, nei momenti tragici dell’incendio, abbia d’istinto scelto di occuparsi dell’albergo anziché della famiglia getta del veleno negli affetti e nell’amore che non potrà più essere riassorbito del tutto. 
Colombati descrive con grande efficacia i pericoli che si annidano anche nelle vite apparentemente meno esposte alla tragedia, trascorse tra un campo da tennis e uno spicchio di mare blu. Le incertezze, gli strati neri dell’esistenza addomesticati, tenuti a bada nella routine della normalità ma destinati a esplodere quando tutto finisce per crollare. Specialmente nel bollore dell’estate.