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 2018  febbraio 10 Sabato calendario

Una telefonata dagli Usa. E Netanyahu rinuncia all’affare della cannabis

GERUSALEMME I due ministri camminano insieme nella serra, accarezzano le foglie verdi, si fermano davanti alla telecamera. Un comizio circondati dalle piante di marijuana. La più persuasiva è Ayelet Shaked, alla Giustizia e tra i leader nel partito dei coloni: «Siamo la locomotiva, non possiamo diventare uno dei vagoni». Ovvero perdere il primato nella coltivazione di cannabis terapeutica e rinunciare a oltre 1,2 miliardi di dollari in esportazioni. 
È quello che vuole dal suo governo il premier Benjamin Netanyahu: ha imposto di congelare la legge e il progetto approvati un anno fa, un favore – scrivono i giornali israeliani – che gli avrebbe chiesto Donald Trump. Il presidente è contrario alla legalizzazione promossa dal predecessore Barack Obama, l’erba per scopi medici è ormai acquistabile nei dispensari di 28 Stati americani e in altri è disponibile anche per uso ricreativo.
Netanyahu avrebbe raccontato della telefonata ricevuta dalla Casa Bianca e spiegato di non voler irritare il leader americano, anche se gli Stati Uniti non diventerebbero il compratore principale. Israele così rinuncerebbe a essere il pioniere di un flusso planetario che gli analisti finanziari ormai chiamano l’«oro verde».
A Tel Aviv si ritrovano fra un mese e mezzo gli innovatori, inventori, investitori di questo mercato globale. Per due giorni alla fiera Cannatech discutono dei nuovi metodi per estrarre gli oli essenziali dalle piante (i medici israeliani prescrivono ai bambini epilettici le gocce ripulite degli ingredienti psicoattivi) o dei vaporizzatori che permettono ai malati di cancro (è efficace contro la nausea e il dolore) di assumere la marijuana terapeutica senza gli effetti nocivi del fumarla. Nel 2016 il gigante americano del tabacco Philip Morris ha investito 20 milioni di dollari nella start-up israeliana Syqe che produce un inalatore per controllare il dosaggio fino ai milligrammi.
Il premier israeliano spiega in modo ufficiale di aver cambiato idea dopo aver letto un nuovo rapporto del ministero degli Interni, che pure un anno fa aveva dato il via libera: la crescita nella produzione aumenterebbe il rischio che la marijuana di Stato finisca sulle strade, alimenti il mercato dello spaccio. Ayelet Shaked da ministra della Giustizia risponde che le denunce (zero) dimostrano l’opposto: «In tutti questi anni non ci sono stati casi di furti o condanne per il traffico di cannabis coltivata nelle aziende autorizzate. Sono sicura che nel prossimo incontro con Netanyahu riusciremo a convincerlo dopo avergli illustrato i dettagli. Personalmente sono anche impressionata dai benefici che ho visto sui pazienti». 
Permettere l’esportazione – un piano sostenuto da gran parte della destra al governo e dai partiti di opposizione – aiuterebbe anche a rivitalizzare i kibbutz, le comunità cooperative in crisi economica e ideologica. «Aziende agricole e investitori che hanno puntato sulla decisione precedente rischiano adesso di fallire – commenta l’avvocato Hagit Weinstock, che rappresenta i coltivatori di marijuana —. La scusa che l’erba finirebbe nelle mani degli spacciatori è ridicola: Israele ha già decriminalizzato l’uso personale e tutti fumano, l’eccesso di produzione non farebbe la differenza». Secondo l’Autorità israeliana antidroga il 27 per cento della popolazione tra i 18 e i 65 anni avrebbe fumato erba almeno una volta l’anno scorso. I pazienti che sono autorizzati all’uso di quella medica sono invece 25 mila, ogni mese ne vengono distribuiti quasi 500 chili.

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