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 2018  febbraio 12 Lunedì calendario

«Non sono mangiauomini per questo piaccio alle donne. Luca? L’incontro perfetto». Intervista a Luisa Ranieri

Dapprincipio, Luisa Ranieri piombò sul piccolo e sul grande schermo come un’esplosione di sensualità. Disse una sola battuta nello spot di un tè freddo (una sola: «Anto’ fa caldo») e, per tutti, fu il nuovo sex symbol mediterraneo che aspettavamo dopo Sophia Loren. Nel 2004, Michelangelo Antonioni la volle in Eros, il film collettivo firmato con Steven Soderbergh e Wong Kar-wai e il cui svolgimento manteneva la promessa del titolo. Lei oggi ride e dice: «Non mi sono mai vista per come mi sceglievano. All’inizio, mi sentivo prigioniera della mia fisicità, ma non si può scappare da se stessi e ora ho fatto pace col mio corpo». Nata a Napoli 44 anni fa, esordio nel 2001 nel Principe e il pirata di Leonardo Pieraccioni, poi una quarantina tra film e fiction, in mezzo, il matrimonio con Luca Zingaretti e due figlie, Emma di 7 anni e Bianca di due. Una volta, Massimo Giletti l’ha presentata in tv come «una Audrey Hepburn nel corpo di Sophia Loren».
Luisa, si riconosce nella definizione?
«Più o meno. Guardandomi, uno può pensare allo stereotipo dell’attrice napoletana avvenente, ma mi sento più semplice, più timida».
Cantando per lei nell’ultimo show di Giorgio Panariello, Biagio Antonacci, ha detto: tu hai negli occhi tantissime donne. Questa come le sembra?
«Posso dire che, mentre Biagio cantava, dovevo stare impalata e sorridere e dentro stavo morendo dalla vergogna. Non so quante Luisa esistano, mi sento sempre in divenire».
Il cambiamento più importante?
«Sono meno insicura. La maternità ti centra. E sono meno timida. Da ragazza, ero quasi dislessica e, all’università, svenivo all’idea di dare gli esami».
Com’è che una timida diventa attrice?
«Per amicizia. Accompagnai a un corso di teatro un amico a cui volevo un bene dell’anima, era un ex tossicodipendente e faceva teatro come terapia. Recitare ti aiuta a uscire da te stesso e aiutò anche me. Dopo, ti accorgi che ti piace essere amata, stare nel cuore delle persone».
Quanto temeva il film di Antonioni?
«Accettai senza avere la sceneggiatura, sapevo solo che c’era una scena di nudo. Pensai: vabbé che sarà mai. Invece, dovetti girarne una di auto masturbazione. Dopo, vomitai. Non ho mai più voluto fare scene forti di sesso e, in carriera, la mia lotta è stata per non ottenere solo ruoli da bonona».
Ora, su Instagram, la seguono soprattutto donne.
«Sentono che non sono una mangiauomini. Mi fa piacere perché non conosco invidia e competizione al femminile. Sui set, le colleghe più giovani mi dicono sempre: non mi è mai successo che un’altra attrice mi suggerisse di farmi sistemare meglio».
Ci sono attrici che preferiscono che le colleghe sembrino più brutte di come sono?
«Basta che una più star delle altre dica alla costumista “perché hai messo i tacchi e quella?” e lei capisce. O “perché è truccata così?”. Sono mezzucci e io all’inizio li ho subiti».
Delle molestie nel cinema si parla troppo o il necessario?
«Quando le cose diventano una moda, si ha il risultato opposto. La gente dice: vabbè, ti ha molestata, succede a tutte. Sono la prima a dire che la violenza sulle donne va condannata, ho condotto anche Amore Criminale su Raitre, ma bisognerebbe ponderare a chi dare la parola: ho visto parlare in pubblico colleghe che, mentre io stavo in fila ai provini, stavano a cena con i produttori».
Quanti ruoli ha perso a favore di attrici che andavano a cena con il produttore?
«Qualcuno. Certe dicono “faccio prima così”, e se non si sentono molestate va bene, non giudico. Ognuno sceglie di essere quello che è. Io avevo bisogno di dimostrare altre cose».
In particolare, cosa?
«Volevo che mia madre fosse fiera di me. Volevo dimostrare a lei e a me stessa che ero brava e avevo la testa sulle spalle. Mamma diceva: prima dei 30 anni, siete tutte belle, dopo hai qualcosa da dire solo se hai cervello».
Lei è mai stata molestata?
«Ho avuto avances garbate risolte con una risata. Non puoi togliere alle persone il diritto di provarci».
Sta con le intellettuali francesi quando dicono che la galanteria non è un delitto?
«Un capo che molesta in ufficio deve morire, ma non dobbiamo demonizzare un gioco di sguardi. Se no, è finita la vita. Ora, rischiamo il ridicolo: ho sentito di App in cui due vanno a cena e stabiliscono prima cosa fare e cosa no. A New York, facevo Gyrotonic al Rockfeller Center. È una disciplina in cui l’istruttore ti tocca per metterti in postura, ma lì non ti toccavano per paura di essere denunciati».
Ha firmato con altre 123 attrici e professioniste dello spettacolo l’appello contro le molestie intitolato «Dissenso comune». 
«Spero che serva a non far sentire sola chi ha la necessità di denunciare. Se non si passa all’azione, l’ondata di ritorno sarà che tutto è lecito e cambierà solo che le ragazze ingenue staranno più attente».
Perché si è tenuta l’accento napoletano?
«L’ho ripreso negli ultimi due o tre anni. Riacquistando sicurezza, mi sono riappropriata delle radici. Mi piace assai».
Al cinema, è in «Napoli Velata» di Ferzan Ozpetek, quanto c’è della sua Napoli in quel film?
«C’è una città inedita nella bellezza: di solito si fanno vedere o il Vesuvio o le vele di Scampia, qui si vede una Napoli grande capitale di un regno, capitale di cultura, rinata in splendore negli ultimi anni».
Che ragazzina è stata in quella città?
«Figlia di separati, papà borghese e mamma popolana. Molto protetta, con poca libertà. Sono nata vecchia: mia madre, che intanto si era risposata, lavorava e io sentivo il peso della responsabilità dei fratelli più piccoli». 
In cosa si concretizzava «il peso della responsabilità»?
«Tornavo a casa, mamma non c’era, io mettevo giù la pasta, cucinavo per noi tre, pulivo i piatti, poi studiavamo, alle quattro preparavo la merenda, alle 19.30 apparecchiavo per la cena».
Quanti anni aveva?
«Dieci».
Oggi sarebbe quasi da Telefono azzurro. 
«Io lo ricordo come un bellissimo periodo di autogestione fra noi. Era normale e giusto, e una zia abitava sul pianerottolo, non eravamo abbandonati a noi stessi». 
Lei in che modo cerca di responsabilizzare le sue figlie?
«Emma sa che deve rimettere a posto i giochi da sola e, il sabato e la domenica, facciamo il letto e cuciniamo insieme». 
È una madre severa?
«Sono la parte normativa della famiglia. Però sono anche tattile: bacio, abbraccio, coccolo. E se sono fuori a lungo, come adesso che per dieci settimane ho girato La vita promessa di Ricky Tognazzi, una fiction sugli italiani d’inizio secolo immigrati in America, io e Luca ci scambiamo i ruoli».
Che cos’è per lei la famiglia?
«Un punto di riferimento. Ne ho sempre voluta una». 
Suo marito ha raccontato di averle detto, a un certo punto: quest’anno mi riproduco, chi c’è c’è.
«Avevo sempre un film da girare e dicevo “i bambini l’anno prossimo”. Ora, sono felice».
Com’è fatta la felicità?
«Può stare in mezzo a tanti pensieri. Ora, il mio secondo papà non sta bene e sono botte di dolore. Poi, vedo le mie figlie accogliermi con un sorriso e dico: che bello!».
In un’intervista, ha detto di avere un animo malinconico alla Silvana Mangano.
«Mi avevano chiesto se somigliavo più lei o alla Loren. Ho perso papà a 24 anni, attraverso momenti di malinconia come di felicità. Sono stata 10 anni in analisi per le mie complessità».
La cosa più importante compresa in analisi?
«A volermi bene. Quando i genitori si separano, un bimbo può percepire che non è amato o sentirsi in colpa. Poi, se impari ad amarti, senti un’energia che si libera. Dopodiché, noi attori incontriamo tanti personaggi e compensiamo».
Un personaggio con cui ha compensato?
«Tutti, ma mi piacerebbe interpretare di nuovo Maria Callas: oggi, la arricchirei di sfumature perché so che, se non ti ami, non ti fai amare. Lei, da Onassis, si è fatta usare perché non si amava». 
Che significa amare?
«Avere comprensione profonda, non soffermarsi sui difetti dell’altro e cercare di guardare il meglio. È un lavoro e non è facile, ma Luca è stato il mio incontro perfetto. Tutti i matrimoni hanno alti e bassi, ma se si è scelto con cognizione di causa, per affinità e sensibilità, sono più gli alti».
La vostra affinità qual è?
«La vicinanza di anime, lo stesso modo di sentire le cose».
Quando vi vedremo lavorare di nuovo insieme?
«Faremo in teatro The deep blue sea e per la prima volta sarò diretta da Luca. Sarò una londinese borghese che lascia il marito per un giovane giocatore di polo, è una storia sull’amore che fa arrivare alla distruzione». 
Come si immagina guardando più in là?
«Non mi vedo, non ci penso. Non sono una persona che recrimina sul passato o si preoccupa per il domani. Penso ora e qui».