Corriere della Sera, 12 febbraio 2018
Il presidente involontario
Forse in modo non del tutto involontario, la campagna di Trump aveva ricalcato le orme della trama del classico di Mel Brooks Per favore, non toccate le vecchiette. Gli ingenui e truffaldini protagonisti, Max Bialystock e Leo Bloom, decidono di frodare i finanziatori dello spettacolo di Broadway che stanno producendo. In sostanza i due si impegnano a mettere in scena un fiasco: impiegando solo una minima quota del capitale degli investitori nella produzione, infatti, avrebbero potuto tenerne per sé la maggior parte. Manco a dirlo, il musical si rivela talmente sopra le righe da fare il botto al botteghino, spedendoli entrambi in galera.
I candidati che arrivano alla presidenza – animati dalla hybris, dal narcisismo o da un senso soprannaturale del proprio destino – molto spesso hanno dedicato una quota sostanziale della loro carriera – se non addirittura tutta la vita, dall’adolescenza in poi – a prepararsi per quel ruolo. Danno la scalata alle cariche elettive. Lustrano la loro immagine pubblica (...) E cancellano con cura le proprie tracce, o come minimo si ingegnano a coprirle. Insomma, si addestrano a vincere e a governare. Il calcolo di Trump, nel senso più proprio del termine, era di tutt’altro genere. Il candidato e i suoi consiglieri più stretti ritenevano di poter raccogliere tutti i frutti dell’essere quasi arrivati alla presidenza, senza dover cambiare di una virgola il proprio comportamento o la loro visione del mondo: non avevano bisogno di mostrarsi diversi da ciò che erano, tanto non c’era speranza di vittoria.
(...) Definirlo del tutto ignaro dei rudimenti intellettuali del mestiere sarebbe stato un eufemismo. All’inizio della campagna, in una scena davvero degna di Per favore, non toccate le vecchiette, Sam Nunberg fu incaricato di spiegargli la Costituzione: «Già al Quarto Emendamento ha cominciato a tirarsi il labbro inferiore con le dita e ad alzare gli occhi al cielo». Quasi tutti nel suo staff erano invischiati in un groviglio di conflitti di interessi capace di distruggere qualsiasi amministrazione. Mike Flynn, il futuro consigliere per la Sicurezza nazionale che lo intratteneva dicendo peste e corna della Cia e dell’inettitudine delle spie americane, era stato messo in guardia da amici che non era una buona idea accettare 45.000 dollari dai russi per tenere un discorso. «Be’, sarebbe un problema solo in caso di vittoria» aveva risposto lui. Dunque il dubbio non si poneva affatto.
Paul Manafort, lobbista e consulente politico internazionale assunto da Trump per guidare la campagna dopo il licenziamento di Lewandowski (...), per trent’anni aveva reso i propri servigi a dittatori e despoti corrotti, accumulando milioni di dollari e lasciandosi dietro una pista di denaro che già da un pezzo aveva attirato l’attenzione degli inquirenti americani (...).
Per ovvi motivi, prima di Trump nessun presidente e pochissimi politici erano emersi dal campo immobiliare, un settore scarsamente regolamentato, basato sul debito ed esposto alle frequenti fluttuazioni di mercato, che spesso dipende dagli aiuti dello Stato e rappresenta la destinazione prediletta per i patrimoni di dubbia provenienza, ovvero per il riciclaggio di denaro sporco. Oltre a Trump stesso, il genero Jared Kushner, il consuocero Charlie Kushner, i figli Don Jr., Eric e Ivanka avevano tutti tenuto a galla le proprie imprese d’affari operando in vario grado nella zona grigia dei flussi di contanti e dell’evasione fiscale. Jared Kushner, marito della figlia e braccio destro di Trump, era legato a doppio filo all’impresa immobiliare di suo padre Charlie, che a più riprese aveva scontato condanne federali per evasione fiscale, corruzione di testimoni e finanziamento illegale di campagna elettorale.
Nella politica moderna, è prassi che un candidato incarichi il proprio staff di prevenire l’opposizione, conducendo indagini puntigliose su di lui e i suoi collaboratori. (...) Roger Stone, suo storico consigliere politico, spiegò a Steve Bannon che esaminarsi a fondo non era nell’indole di Trump. Né avrebbe tollerato che altri sapessero troppo di lui: come si dice, l’informazione è potere. E comunque, perché prendersi la briga di un esercizio tanto sgradevole e potenzialmente pericoloso, quando non c’era alcuna possibilità di vincere le elezioni?
(...) Di più: evitò di soffermarsi anche un solo istante sulla questione della transizione della squadra di governo, sostenendo che «portava male», ma intendendo in realtà che era una perdita di tempo. Tanto non avrebbe vinto! O meglio, lui avrebbe vinto perdendo. Il suo obiettivo era diventare l’uomo più famoso del mondo, il martire della corrotta Hillary Clinton.
Al suo seguito, la figlia Ivanka e il genero Jared sarebbero passati da ragazzini relativamente ignoti a celebrità internazionali e ambasciatori del marchio Trump.
Steve Bannon avrebbe assunto la guida de facto del movimento del Tea Party.(...) Melania Trump sarebbe potuta tornare nell’ombra. Questo era l’esito rassicurante che si aspettavano dall’8 novembre 2016. Tutti loro avrebbero guadagnato dalla sconfitta.
Quella sera, quando, poco dopo le otto, l’impensato sembrò diventare realtà – c’era davvero il rischio che Trump vincesse le elezioni —, Don Jr. disse a un amico che suo padre, o «DJT», come lo chiamava lui, era pallido come un morto. Melania, cui il marito aveva giurato che mai e poi mai sarebbe diventato presidente, piangeva a dirotto. E non erano lacrime di gioia.
Nel giro di poco più di un’ora, sotto gli occhi piuttosto divertiti di Steve Bannon, il suo candidato passò dallo sconcerto all’incredulità e infine al terrore. Ma mancava ancora la metamorfosi finale: presto Donald Trump si sarebbe convinto non soltanto di aver meritato la vittoria, ma anche di avere tutte le carte in regola per essere il nuovo presidente degli Stati Uniti.
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Jared e «The Donald» allo specchioLui stesso si sarebbe sorpreso di sentirselo dire (...), ma in realtà Kushner era molto simile a suo suocero. E ancora più inquietante era la somiglianza tra suo padre Charlie e quello di Donald, Fred. Tutti e due avevano usato ricchezza e potere per dominare e sottomettere i figli, ottenendone la devozione assoluta, a dispetto delle loro pretese. In entrambi i casi due uomini aggressivi, inflessibili, spietati e amorali avevano cresciuto figli pazienti e docili, animati da un bisogno disperato dell’approvazione paterna (…)
Per quanto schiacciati dai rispettivi genitori, né Donald né Jared avevano affrontato il mondo con umiltà (…) Nessuno dei due era mai uscito dalla propria cerchia di ricchi e famosi, semmai la missione di entrambi era di penetrarla ancora più a fondo.
Erano arrampicatori sociali di professione. (…) Entrambi erano accomunati anche dall’aver dovuto ammettere che il mondo di Manhattan, e in particolare la sua voce – i media —, non voleva saperne di loro.
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Licenziare il «traditore»Di solito le sfuriate di Trump sembravano quasi studiate ad arte, ma i segnali di una collera genuina c’erano tutti: perdeva completamente il controllo, gli si deformavano i tratti e si gonfiavano le vene. Uno spettacolo impressionante. E stava per succedere anche adesso.
Incenerendo il consigliere legale con uno sguardo, Trump sbottò: «Comey è un traditore». C’erano traditori ovunque e andavano annientati. (…)
Alla riunione, Bannon, prima completamente isolato ma ora unito a Priebus dalla comune avversione a Jarvanka, colse l’opportunità per argomentare con passione che Comey bisognava lasciarlo stare: tesi che, pur senza farne i nomi, era anche un atto d’accusa contro Jared, Ivanka e quei «geni» dei loro alleati. (…) In tono fosco e minaccioso, Bannon avvertì Trump: «La questione della Russia per ora è soltanto un trafiletto, ma se licenzi Comey finirà in prima pagina sui giornali di tutto il mondo».
Lui e Priebus uscirono dalla riunione convinti di aver prevalso.Ma già nel fine settimana, davanti all’angoscia della figlia e del genero, il presidente ricominciò a masticare bile. (…) Secondo gli estranei alla cerchia di Jarvanka, fu Jared a spingerlo all’azione, fomentando la sua rabbia.
© Rizzoli, Mondadori Libri S.p.A.