La Stampa, 12 febbraio 2018
Nel Niger che aspetta i soldati italiani. Tra i tuguri di Niamey l’intervento occidentale sembra un’invasione coloniale
Stiamo in guardia! Verità nuove si annunciano in questa parte del mondo corrosa dalla miseria con la lentezza di una malattia. Non facciamo i gradassi con le nostre armate luccicanti e il drenaggio dei migranti «a casa loro». Arrivo in Niger, Paese chiave del passaggio della Migrazione, per raccontare il luogo dove l’Italia sta per mandare 470 soldati. Ho provato, semplicemente, a rovesciare il punto di vista sulla «tragedia statistica» dell’Africa e guardare dal punto di vista degli africani. Op! tutto quello che da noi appare certo, il flusso che si ferma, i governi locali che, era ora! collaborano, il denaro europeo che assicura rimpatri «dignitosi», spariscono. I soldati americani, francesi, italiani così indispensabili alla lotta ai lanzichenecchi islamisti diventano invasori che si ritagliano, arroganti, coloniali fette di sovranità. Tutto è il contrario, dunque, e diventa una grande finzione.
Intanto specchiandosi nella tragedia della migrazione i giovani del Sahel hanno preso coscienza delle loro ingiustizie e non le accettano più. I migranti come miccia, come lievito di rivoluzione, i ragazzi, quando scenderanno in piazza, avranno con sé ogni diritto. Nulla del nostro blaterare sulla sicurezza e le necessità della geopolitica li interesserà, non leggeranno i nostri articoli, non ascolteranno i nostri discorsi di bottegai dell’umanesimo. Le nostre idee, ahimè!, le saluteranno sputandoci sopra.
Discussione di fantasmi
Il dibattito infervorato su come fermare i migranti e rispedirli a casa, visto da questa parte, è una discussione di fantasmi, le ambizioni di bloccare la migrazione, drenandola nel Sahel, sono comiche. Tra qualche mese, forse, saremo qui a raccontare folle in tumulto che danno l’assalto ai Palazzi di cleptocrazie nauseabonde su cui abbiamo puntato carte truccate. Ricordate il 2011? I ragazzi di Tunisi, di Tripoli, di Hama? Una Primavera del Sahel che ci lascerà, un’altra volta, senza parole, umiliati dalla nostra cecità. Gli uomini, i giovani che vivono qui non sono logori, sono sfiniti. Prima di questo viaggio pensavo che il problema fosse che abbiamo cessato di dare. Ai poveri, ai migranti. Torno convinto che non sappiamo più dare. Ed è peggio.
Niamey, la capitale: una distesa di tuguri vivi e decomposti, folle di sciancati, di senzatutto vagabondano come polvere che non vale nulla. Ti immergi dentro, sempre, anche dopo anni di viaggi qui, con occidentale sgomento. In verticale, come una bestemmia, si alzano i palazzi lussuosi di innumerevoli banche e delle sedi del governo. I binari di una ferrovia nuova di zecca, costata miliardi di franchi Cfa, fanno da spartitraffico. Nel viaggio di prova il treno si è rovesciato. Hanno riprovato: un altro disastro. L’hanno costruita male. Mi sussurrano un nome potente in Africa e non solo: «Bolloré», come se fosse una formula di cattivo augurio.
A un semaforo un mendicante cieco guidato da un ragazzo, pacato, mi incalza con i suoi occhi opachi: dammi qualcosa «Non ho monete locali, solo centesimi di euro: valgono troppo poco nessuna banca te li cambierebbe». «Dammeli, dammeli, c’è Cobrà che li cambia». Si perché per Cobrà, il serpente, nulla è troppo piccolo. Cambia, guadagnandoci la metà, a medicanti e facchini degli alberghi i centesimi occidentali, fa mucchio e poi va in banca dove lo accolgono come un finanziere. La infinita ingegnosità della miseria. La piazza delle manifestazioni: è un «tabà», un luogo in cui i giovani si incontrano, tessono sogni, discutono. Un ragazzo mi mostra i grandi ritratti dipinti sui muri dei presidenti dei cinque Paesi del Sahel. Sono riuniti a Niamey per «rendere sicura la regione». Sembrano già identikit di ricercati su cui si sfogherà la rabbia della gente. Un ragazzo mi dice: la sicurezza è un bel concetto. Importante. ma se non hai da mangiare che ti importa della sicurezza?».
I 43 ministri
Il governo, che non ha più soldi nemmeno per gli stipendi, ha imposto tasse ai più poveri del mondo: lo Stato è povero, pagate voi! Ci sono quarantatré ministri in Niger. Ognuno di loro ripaga armate di parenti e portaborse con incarichi, missioni, commende. Attingendo ai fondi dello Stato, ai contratti con l’estero, ai soldi dati per fermare i migranti. Non lo sapete? Suvvia.
Prestiamo attenzione ai rumori sempre più forti. A Niamey si scende in piazza da settimane, il potere risponde con arresti di leader e giornalisti che raccontano. In Ciad ci sono già i primi morti. Ho incontrato gente diversa, non è più rassegnata, non ha più quella apparenza di colpevoli che hanno le vittime. I presidenti-padroni, i nostri soci, indifferenti, vengono in Europa a raccogliere sorrisi riconoscenti. È gente che non ha nulla da proporre ai propri popoli, vuol solo rubare, il male eterno dell’Africa che traffica con noi, complici consapevoli.
Intanto su, ad Agadez e nelle città del deserto, migliaia di migranti sopravvivono, attendono che torni il tempo buono del viaggio, i passeur lucidano i veicoli e predispongono nuove piste sicure da percorrere con i gps, lanciati a cento all’ora verso la Libia. Aggireranno i controlli: di gendarmi che hanno bisogno delle loro mance per sostituire stipendi da fame e in continuo ritardo.
È chiaro che noi occidentali siamo qui a combattere per i nostri soli interessi. Questa parte del mondo perde le proprie povere viscere. Bisognerebbe ricucire, e presto: non c’è un secondo da perdere. Costoro sono condannati. Ma noi spediamo inutili soldati e paghiamo i grandi ladri vestiti di eleganti boubou.
Saliamo ad Agadez, per l’ennesima volta: con fatica, senza speranze, sapendo che Agadez è una ricapitolazione di quanto accadrà ed è accaduto.
Ah, il vecchio aereo dei palestinesi! È sempre lì, il vecchio Fokker ad elica con la sua scomodità e la sua austerità, simbolo appropriato della preparazione alle dure gioie del raccontare luoghi come questi. Tutto vi assume una sobrietà accogliente mentre sorvola il Sahel. Il grande bricco con cui servono il tè, i racconti dell’equipaggio: vengono da Gaza e da Hebron.
Una volta Agadez mi piaceva: le fragili, eterne architetture di sabbia che annunciano il deserto, c’era un calore di partenza, di viaggio e di orizzonte libero. Adesso ci vedo solo una città di miseria e di agonia; è rimasta la luce che regna indisturbata. Il resto è solo povertà, stratificata, dura come una crosta che copre uomini e cose. Il miracolo degli alberi è macchiato da sudice sagome che ondeggiano al vento. Credevo fossero grossi corvi appollaiati. Invece sono lembi di sacchetti di plastica neri.
Un uomo con una ascia preistorica fa a pezzi un tronco abbattuto: altri secoli di vita miracolosa che andranno in cenere. Tra gonfi mucchi di immondizia e rigagnoli puzzolenti tre vecchi dalla barba bianca: immobili. Nulla si muove. Nulla è urgente. Tutto è crudele.
Agadez viveva di turismo: è finito nel 2006 con la rivolta dei tuareg. Poi è venuto l’oro, scoperto nelle montagne intorno. Il governo ha vietato ai cercatori privati di avvicinarsi e vende le concessioni alle grandi compagnie straniere. Le imprese dell’uranio hanno appena licenziato 700 persone. Erano rimasti i migranti, l’oro nero come li chiamavano: trecentomila almeno nel 2016. A luglio, dopo gli accordi con l’Europa, è diventata un’attività illegale e si è pressoché fermata. Si calcola che Agadez abbia perso 65 milioni di euro. Ecco. Non è rimasto niente. Attorno alla città, sulle montagne, si moltiplicano i gruppi armati. Non sono jihadisti, ma banditi che assalgono viaggiatori e camion. Diventeranno, al momento giusto, reclute della guerra santa.
Nascosto nel turbante
Le delegazioni europee che vengono qui, giulive, per controllare come funziona bene il controllo, dovrebbero farsi accompagnare nel quartiere di Obitara. Dove ci sono i «ghetti», li chiamano così. Durante la stagione delle piogge diventa palude, non c’è la corrente elettrica e nemmeno l’acqua. In grandi cortili circondati da muri di fango secco tengono i migranti. Scoprirebbero che ce ne sono almeno quaranta di questi luoghi infernali, e zeppi di gente. I passeur si fanno dare i soldi dalle famiglie, le ragazze quasi tutte nigeriane si prostituiscono per pagare.
Ci vado di notte, mi nascondo dietro un turbante da tuareg. Una discesa tra le ombre da cui spiritualmente non si torna più indietro come chi scendeva nell’Ade. Attraverso la città senza illuminazione in moto. Piccoli fuochi accendono il buio, bruciano le immondizie. Le luci dei telefonini illuminano i volti di ragazzi riuniti, a mazzi, agli angoli delle strade. Dopo il tramonto Agadez diventa un villaggio, solo le voci dei cani nella notte chiara. Nei cortili dei ghetti mi muovo inciampando. Puzza di escrementi, di cibo guasto, di umori umani. Aleggia dalle stanze un rumore indefinito fatto di rauchi ronfi, di gemiti oscuri, del raschiare di latta, quasi un battere arterioso. Entro e cala il silenzio. Volti duri, assonnati, reclinati cui il buio conferisce un’aria spettrale. Tacciono enigmaticamente. Ho paura di vedere questi visi serrarsi, facendosi lisci come muri. Questa è la gente che abbiamo fatto sparire ma senza annullarla, come il prestigiatore con una carta del mazzo: è lì, attende, ci inchioda alle nostre responsabilità.
Sidi il passeur ha deciso: «Giovedì ricomincio, vado a Dirkou, a nord ci sono migliaia di migranti in attesa, riallaccio i miei contatti, in Libia, in Senegal, in Gambia. Non posso più aspettare. Si riparte». Aveva smesso quando hanno arrestato i primi passeur e sequestrato i veicoli. Mi fa vedere il formulario con cui aveva chiesto i fondi di riconversione promessi dalla Unione europea: 2000 euro per avviare un commercio, un’attività agricola, allevare bestiame. Lui ne guadagnava con i migranti settemila la settimana. Alla voce professione è scritto: passeur di migranti. Hanno fatto la domanda in mille. Non è arrivato finora un centesimo. E i soldi? Si sono fermati a Niamey. Forse sono serviti a pagare gli stipendi arretrati ai funzionari. «Anche i poliziotti hanno bisogno di soldi, li pago perché mi avvertano quando è prevista una retata, così nascondo i miei migranti e tutto fila liscio. Ma con i viaggi il denaro tornerà a girare. I soldati francesi a Madamà, il posto di frontiera sul confine libico? Ci sono passato decine di volte, avevo i pick up carichi, mi guardavano e non dicevano niente… Forse eran lì per altro. Adesso ci vanno gli italiani? Tutto è cambiato? Fratello, voi buttate via soldi, dammi retta. Chi ci passa più a Madamà? C’è una pista magnifica tra due montagne che aggira la città, i libici aspettano lì adesso. I prezzi con tutto questo bordello sono alle stelle, si guadagnerà bene».
Ieri notte ad Agadez c’è stata una retata, hanno catturato molti migranti. Il guineiano è contento perché adesso avrà molto lavoro, guadagnerà bene. Era un migrante. Ha due volte attraversato l’oceano in piroga dalla Mauritania alla Spagna. Un sopravvissuto. Adesso lavora all’Oim, l’organizzazione internazionale per le migrazioni che ha un campo ad Agadez. Non nel senso che ne è un dipendente: nel senso che la utilizza. Compra dai migranti in attesa di rimpatrio molte cose. «Sapete, hanno con sé cose interessanti da comprare a poco prezzo, incredibile dopo il viaggio che hanno fatto fino qui: orologi telefonini. Guarda questi sandali, belli no? Cuoio magnifico, li ho comprati da un migrante. Hanno bisogno di soldi per ritentare, hanno fatto debiti per partire che dovrebbero pagare se tornano a casa. Non lo sapete? Possono farlo solo se arrivano in Europa, da voi, a costo di crepare. Io li faccio uscire dal campo, diciamo che dentro ho dei contatti, le famiglie mi mandano i soldi. Escono, si nascondono, possono ritentare».
Riparto. L’aereo palestinese è in ritardo, cinque ore. Un soldato nigerino, l’elmetto in testa mitra scarponi da deserto, tutto nuovo, corre a perdifiato verso la pista lanciando urla terribili. Un gruppo di caprette ha adocchiato una lisca di erba vicino alla pista. Ridiventato pastore il soldato le fa fuggire. Sta atterrando un nero, lucente trasporto americano.
Americani in assetto da guerra si dispongono a raggiera, i fucili puntati in tutte le direzioni. Un grande bulldozer infila i denti di ferro nella pancia dell’aereo ed estrae una piccola cassa di legno. Caricano la cassa su un camion aperto che potrebbe portare un carro armato. Si forma un convoglio di autoblinde che sfuma nella calura del deserto verso la base. L’aereo che non ha nemmeno spento i motori riparte nella luce… lente, immense nubi di polvere scivolano sulla città.
COSE BUONE PER ANTEPRIMA