il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2018
Jihad, povertà, droga. Le ombre del Paradiso
Quanti di noi direbbero che le Maldive sono un paese musulmano? E invece, in rapporto alla popolazione, sono anche il paese non arabo con il più alto numero di foreign fighters. Tutti abbiamo un amico, un cugino che è stato alle Maldive: qui tutti hanno un amico, un cugino che è stato in Siria. Ma in fondo, all’aeroporto la sala arrivi è in realtà un’altra sala partenze: si atterra, e ci si imbarca subito per una delle isole riservate agli stranieri. Per noi le Maldive sono un arcipelago di 1.192 isole: ma per i maldiviani, sono un’isola sola: Male. La capitale. Qui tutto è concentrato nei suoi 5,8 chilometri quadrati. Uffici, ospedali, negozi. Scuole. Banche. E circa 250 mila persone: Male è una delle città più sovraffollate del pianeta. Si vive pressati in queste case minuscole e scalcinate, buie, umide, sature di caldo e sudore, in dieci in due stanze: e cioè si vive per strada, perché poi, in spazi così ristretti, tutto è un inferno – le Maldive sono il paese con il più alto tasso di divorzi. E dal momento che l’Islam vieta l’alcol, sono anche il paese con uno dei più alti tassi di eroinomani: il 44 percento degli abitanti ne ha uno in casa. “Perché se non puoi cambiare la tua vita”, mi dice un ragazzo, “non ti resta che dimenticarla”.
Ha 31 anni, si chiama Kinan. Ed è uno dei nomi più noti, e temuti, della criminalità di Male. Il principale datore di lavoro delle Maldive. Perché nei resort, in realtà, sono tutti stranieri: non solo i clienti. “I camerieri, i cuochi, ormai sono tutti del Bangladesh, sono tutti immigrati per cui cento dollari al mese sono una fortuna”, dice. “Mentre per i ruoli a contatto con i turisti, vogliono solo occidentali. Solo bianchi”. I 3,5 miliardi di dollari l’anno del turismo finiscono in larga parte a cinque, sei affaristi con solide amicizie in Parlamento. Agli altri, non restano che gli spiccioli. Mance, letteralmente. Male è spartita tra una trentina di gang: ognuna legata a un certo deputato, a sua volta legato a un certo imprenditore. “Siamo al loro servizio”, dice. “Per qualsiasi cosa. Per un volantinaggio come per un’aggressione. E con tanto di tariffario: è un mestiere come gli altri”. 1.200 dollari per spaccare una vetrina. 1.600 per aggredire un giornalista.
In un sondaggio commissionato dal governo, il 43% degli abitanti di Male ha detto di non sentirsi sicuro neppure a casa propria. Per quelli come Kinan, la Siria è una specie di seconda opportunità. Una forma di redenzione. “Qui accoltelli fino a quando non vieni accoltellato”, dice. “Nient’altro. E per una guerra che non è la tua. In Siria, se non altro, sarei ucciso per una ragione migliore”. Husham ha 20 anni, e studia alla facoltà di Sharia. Sta preparando un esame: e la partenza per la Siria. “L’Islam è giustizia”, dice. “Giustizia come è intesa ovunque. Come uguaglianza di diritti e di opportunità”. Le Maldive, dice, potrebbero essere come Dubai. Come la Svizzera. E invece il 5% della popolazione possiede il 95% della ricchezza. “E invece è tutto un favore. Se ti ammali, bussi alla porta del presidente, e ti pagano le cure all’estero. Che poi è il motivo per cui nessuno si ribella. Perché ognuno risolve i suoi problemi così. Pensando solo a se stesso”, dice. “Non siamo cittadini. Siamo mendicanti”. Il suo modello, dopo Maometto, è Malcolm X.
I centri di reclutamento non sono solo le moschee – alcune moschee. C’è il carcere. C’è internet. “Ma soprattutto, i reclutatori siete voi”, ci dice uno degli attivisti più noti. “Tutti si chiedono perché i jihadisti non siano bloccati in aeroporto”, dice. “Ma il governo un po’ cerca di liberarsi di gang che ormai conoscono troppi suoi segreti: un po’, semplicemente, condivide certe idee. Come tutti, d’altra parte. Perché magari ti dicono che quel jihadista era un alcolizzato, quell’altro un depresso. Ma qui nessuno contesta l’ideologia di fondo”, dice. “Nessuno ha voglia di accettare questo mondo. Questa vita”. “Qui se vieni da una famiglia ricca, vai a studiare all’estero. Altrimenti vai in Siria”.
Sull’albero più alto, tra i rami, c’è ancora un ramo che non è un ramo, in realtà, è un’asta. Fino a pochi anni fa, c’era la bandiera di al-Qaeda. Perché fino a pochi anni fa, per i suoi 600 abitanti questa non era l’isola di Himandhoo: era l’emirato di Himandhoo. Siamo solo a 90 chilometri da Male. Ma in un certo senso, siamo in un altro paese.
La sharia, alle Maldive, è una sharia rigorosa. Tipo il Pakistan. L’Arabia Saudita. Tutto ciò che è consentito ai turisti, a tutti gli altri è vietato. L’alcol. O il sesso fuori dal matrimonio: sono cento frustate. Solo i musulmani possono essere cittadini, qui: è proibito avere un’altra religione. O non avere una religione. E l’Islam è la materia principale in ogni scuola di ogni ordine e grado. Ma a Himandhoo la sharia è, se possibile, ancora più rigorosa. A Himandhoo, nel nome del ritorno al vero Islam, dell’Islam dei tempi di Maometto, è vietata persino la musica. Anche poi se ai tempi di Maometto le Maldive, in realtà, erano buddiste. Nelle moschee più vecchie, la Mecca è indicata dal pavimento aggiunto dopo, e montato in diagonale. Non erano moschee: erano templi. “L’Islam, questo genere di Islam, così estremo, non è affatto tradizione, è innovazione”, mi spiega Mariyath Mohamed, giornalista. “Trent’anni fa, nessuna di noi aveva il velo”. Oggi, invece, sono tutte in niqab. Tutte completamente coperte. Completamente in nero.
Tutto è cominciato con Maumoon Abdul Gayoom. Il presidente che si inventò i resort, e insieme ai resort, le Maldive stesse: fino ad allora, non erano state che un arcipelago povero e sperduto. Ha governato per trent’anni, dal 1978 al 2008, e in fondo, governa ancora: l’attuale presidente è suo fratello. “Si era laureato al Cairo, ad al-Azhar, il principale centro di studio del mondo islamico. E non avendo legittimazione popolare, si costruì una legittimazione religiosa. Giustificava ogni sua decisione come una decisione dettata dal Corano. E i suoi oppositori, così, finirono per giustificare ogni critica allo stesso modo”. “L’Islam”, dice, “non solo non è tradizione, qui. Non è religione: è politica”.