il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2018
Muri e tv, senza soldi la campagna non c’è più
Alzi la mano chi si è accorto che mancano appena tre settimane al voto. La campagna elettorale è impalpabile. È stata cancellata dai muri, dove le facce dei candidati e i simboli dei partiti sono praticamente scomparsi. È stata eliminata, in fondo, anche dalla televisione: la politica c’è, mancano i duelli. I leader dei partiti non si confrontano più. Così si scivola placidamente verso il 4 marzo, con un duplice senso di rassegnazione: a un’astensione senza precedenti e a un risultato senza vincitori; il verdetto – gli elettori lo sanno – non uscirà dalle urne, ma dagli accordi post voto. E prende forma la più evanescente campagna che si ricordi.
Addio manifesti: l’estinzione dei santini
Il primo effetto è sui muri delle città: i cartelloni elettorali non si vedono quasi più. Svanisce la forma di propaganda più antica, un rituale della militanza: l’attacchinaggio era sudore e a volte sangue (negli anni di piombo sono caduti cuori rossi, come Vincenzo De Waure a Napoli nel 1972, e cuori neri, come Paolo Di Nella a Roma nel 1983).
Le amministrazioni delle grandi città ne hanno preso atto, i numeri dicono molto. In tutta Milano nel 2013 gli spazi per i cartelloni elettorale erano 1.500: 500 per i candidati, 500 per i partiti e 500 per le elezioni Regionali. Quest’anno sono poco più di un terzo: 510 (170 per i candidati e altrettanti per partiti e Regionali). A Roma è stata appena approvata una misura simile: gli stalli per la propaganda elettorale sono stati più che dimezzati. Erano 1.400 (700 per le elezioni Politiche e 700 per le Regionali), quest’anno saranno 666 (equamente ripartiti).
La comunicazione politica ha cambiato pelle e la ragione principale, come sempre, sono i soldi. Il 2014 è stato l’anno della riforma Letta che ha praticamente cancellato il finanziamento pubblico ai partiti. L’effetto sui bilanci è stato disastroso. Il Pd ha chiuso l’ultimo esercizio (2016) con un passivo di 9,5 milioni di euro, risultato soprattutto del sanguinoso sforzo economico per la campagna del referendum sulla riforma costituzionale (14 milioni di spese elettorali, una cifra d’altri tempi). Ne hanno pagato le conseguenze i lavoratori: i 184 dipendenti del Nazareno a settembre sono stati messi in cassa integrazione per un anno.
La Lega non se la passa meglio: i suoi conti sono stati congelati dalla procura di Genova nell’ambito del processo per truffa contro Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito. L’ultima parola spetta alla Cassazione, si esprimerà dopo le elezioni. Forza Italia ha accumulato debiti per circa 100 milioni di euro, e senza l’impegno personale di Berlusconi sarebbe fallita da tempo (già nel 2015 l’ex tesoriera Maria Rosaria Rossi aveva provveduto a licenziare gli 81 dipendenti del partito). Gli unici a non avere problemi di liquidità sono i Cinque Stelle: sono nati e cresciuti sul web, senza sedi fisiche o pubblicità “di carta”.
Quel modello è diventato il solo sostenibile: la campagna elettorale si sposta sui social network. Si paga una squadra di professionisti e nulla più. “I canali di comunicazione – ha spiegato il tesoriere leghista Giulio Centemero – hanno costi irrisori rispetto al passato. Internet è sempre più rilevante. Non solo per i partiti ma anche per i privati: guardi la distribuzione delle risorse per il marketing delle multinazionali”.
La Lega l’ha capito prima di altri e ha una comunicazione social molto efficiente (solo un esempio: Salvini sta per raggiungere i 2 milioni di “mi piace” sulla sua pagina Facebook, quasi il doppio di Renzi, 1.113.000).
Il Pd nell’ultimo anno ha iniziato a imitare il modello grillino, con una serie di pagine Facebook e siti satellite che hanno affiancato i profili ufficiali del partito (ha fatto scalpore la comunicazione aggressiva dell’account “Matteo Renzi News”, gestito – malgrado le goffe smentite – da un esperto di comunicazione del Nazareno, Alessio De Giorgi).
In questa campagna i numeri del cambiamento sono impressionanti. Nel 2013 il tesoriere bersaniano Antonio Misiani aveva stanziato un budget di 6,5 milioni di euro. Solo per la comunicazione erano stati spesi 4,6 milioni di euro, di cui 2 milioni per le affissioni e 300 mila euro per la produzione di materiale tipografico. Il tesoriere Francesco Bonifazi – che intanto lancia creative campagne di crowdfunding per finanziare ogni singola campagna politica – non ha risposto alla domanda del Fatto su quanto sarà investito in queste elezioni. Ma dal Nazareno fanno sapere che la spesa per le stampe (tra cui 5 milioni di volantini e 5 mila copie del programma di Renzi) non sarà superiore a 130 mila euro. Nel 2013 per il Pd il web era solo una delle voci del “piano media” (tv, radio, giornali, internet). In tutto 2 milioni, la stessa cifra spesa quell’anno per le affissioni. In cinque anni la rete si è mangiato la carta.
Per Liberi e Uguali, la lista di sinistra guidata da Pietro Grasso, la responsabile della campagna Rossella Muroni ha annunciato un budget ridotto: “Contiamo di spendere in tutto un milione e 300 mila euro – ha detto a Repubblica –. È una cifra bassa, ma il battage durerà poco e ridurremo al minimo i materiali elettorali”. Con poca carta: solo 1.500 manifesti elettorali nelle città e 2 milioni e mezzo di volantini.
I più penalizzati dalla scomparsa dei manifesti sono i candidati nei collegi uninominali, quelli che avrebbero bisogno di metterci la faccia. Come se non bastasse, ogni partito (tranne M5S) ha stabilito un tariffario per i propri esponenti piazzati in posizioni facilmente eleggibili (dai 40-50 mila euro di Pd e Forza Italia ai 5mila euro di Fratelli d’Italia). E se qualcuno vuole farsi pubblicità se la paga da solo: “Non possiamo foraggiare i candidati dei collegi – spiega il tesoriere forzista Alfredo Messina – serve il loro impegno personale. Per forza di cose il budget è nettamente inferiore a quello degli altri anni”.
La fine dei duelli televisivi
Non solo i muri sono spogli, ma è la prima campagna elettorale senza duelli televisivi. Già altre volte leader e candidati premier non si erano affrontati, ma stavolta non lo fanno nemmeno le seconde o le terze file. Nel 2008, ad esempio, Silvio Berlusconi e Walter Veltroni non si incrociarono mai, ma in tv andarono in scena altri duelli interessanti: Fini contro Bertinotti o D’Alema contro Tremonti. Oggi, invece, nulla. Qualche giorno fa Myrta Merlino è riuscita a far interagire telefonicamente Matteo Salvini e Carlo Calenda, ma è stato quasi un tranello.
Per il resto niente duelli: i politici si sottraggono e nessuno dice niente. Nel 2001, invece, quando Berlusconi rifiutò il confronto diretto con Francesco Rutelli, le polemiche durarono intere settimane. Finora l’unico possibile scontro, in questa campagna, poteva essere a inizio novembre tra Renzi e Luigi Di Maio, a Di Martedì di Giovanni Floris, ma il Cinque Stelle all’ultimo ha dato buca. “Sono pronto a confrontarmi con gli altri candidati premier”, dice ora Di Maio. Sapendo bene che con questa legge elettorale, di veri candidati alla presidenza del consiglio non ce ne sono.
Da questo punto di vista l’Italia dimostra di essere indietro rispetto alle altre democrazie occidentali, dove elezioni senza duelli tv sarebbero impensabili. Non solo negli Stati Uniti dove la tradizione è consolidata, ma anche in Francia e Germania, dove negli ultimi mesi, prima di andare alle urne, si sono visti confronti televisivi tra Angela Merkel e Martin Schulz e tra Emanuel Macron e Marine Le Pen.
“È una pessima abitudine della nostra classe politica”, osserva Corrado Formigli, conduttore di Piazzapulita. “Chi è in vantaggio non ha interesse a sfidarsi con chi insegue, ma è un segnale di debolezza. La politica italiana si sta mostrando sempre più fragile, ha paura di tutto: della fatidica seconda domanda, di confrontarsi con i numeri e anche di scendere in piazza”. “Noi – continua – abbiamo invitato tutti e continueremo a farlo, anche se finora abbiamo incassato solo dei no. L’ultimo è quello di Attilio Fontana che non ha voluto confrontarsi con Giorgio Gori”.
Un controsenso, visto che la stagione della seconda Repubblica si era aperta proprio con un duello televisivo: Berlusconi contro Achille Occhetto il 23 marzo del 1994 davanti alle telecamere di Canale 5, moderatore Enrico Mentana. Passò alla storia: Occhetto totalmente impacciato contro un Cavaliere che, appena sceso in campo, sembrava un marziano. Nel 1996 ne andarono in onda due: Berlusconi-Prodi andata e ritorno, su Raitre con Lucia Annunziata e su Canale 5 ancora con Mentana. Nel 2001 il forzista, in vantaggio su Francesco Rutelli, non si concesse.
Nel 2006 ancora doppio confronto Berlusconi-Prodi: il primo su Canale 5, moderato da Clemente Mimun, e il secondo in Rai, con Bruno Vespa. È qui che l’ex Cav nell’appello finale al voto se ne uscì con il colpo di teatro dell’abolizione dell’Ici, che gli ha quasi fatto pareggiare le elezioni.
Nel 2008 e nel 2013 niente confronti tra i candidati premier, ma diversi duelli tra i principali esponenti di partiti e coalizioni. Oggi nemmeno quelli. “È una sconfitta per tutti: politici, media e democrazia, oltre a essere una mancanza di rispetto per gli elettori. Una parte di responsabilità ce l’abbiamo anche noi giornalisti: negli ultimi anni si è ceduto troppo a veti e capricci dei politici, che prima di andare in tv, tramite i loro staff, vogliono mettere bocca su tutto. Ma da una vera intervista o da un confronto con l’avversario un vero leader ha tutto da guadagnare”, afferma Massimo Giletti, conduttore di Non è L’arena, su La7. Secondo Carlo Freccero, però, è la politica in tv a non tirare più. “Se guardiamo i dati di ascolto dei talk politici negli ultimi dieci anni il calo è notevole. E va di pari passo con l’aumento dell’astensione. Non penso che i duelli elettorali possano invertire questa tendenza. È un certo linguaggio a non funzionare più”, osserva l’ex direttore di Raidue. Fatto sta che il confronto tra Berlusconi e Prodi del 2006 (domande di 30 secondi, risposte di 2 minuti e mezzo, controrepliche di 1 minuto e appello finale di altri 2 minuti e mezzo), a 12 anni di distanza sembra fantascienza.