La Stampa, 11 febbraio 2018
Intervista alla fotografa Mirella Ricciardi: La mia Africa un luogo pieno di grazia
Nata in Kenya quando era ancora una colonia britannica, da padre italiano e madre francese, la fotografa Mirella Ricciardi è cresciuta sulle rive del Lago Naivasha in una casa allo stesso tempo sofisticata e selvaggia. Il suo libro
Vanishing Africa è stato definito un capolavoro di eccellenza fotografica. Vive in Inghilterra.
Perché ha lasciato l’Africa? Non è la sua vita e la sua fonte d’ispirazione?
«Sono nata in Africa nel 1931, sono cresciuta in Africa e sono stata ispirata dall’Africa. È stata la forza propulsiva della mia vita. Ringrazio Dio per questo, fa parte del mio passato, ma fortunatamente sono stata capace di evolvermi e di non fissarmi. Non volevo più vivere da bianca in un Paese di neri senza uno stato di diritto. Nel 2000 sono venuta a Londra. Sono tornata in Africa solo una volta, nel 2007, per conto di Vanity Fair per un reportage sugli ambientalisti».
Ha lavorato anche altrove?
«Nel 1990 sono andata nell’Amazzonia brasiliana a cercare i volti originali della popolazione prima che anche loro cambiassero. Li ho trovati e ho realizzato un libro intitolato Vanishing Amazon e un film per la Bbc. Quello è stato il mio ultimo grande safari ed è stato piuttosto difficile. Sono andata in Amazzonia per sei mesi, da sola. Avevo 60 anni. L’età per me non ha mai contato. Non parlavo brasiliano, sapevo solo che dovevo andare. A poco a poco mi sono fatta strada nella giungla, ho persino imparato la lingua».
Perché i suoi genitori finirono in Africa?
«Mia madre era un’artista a Parigi, un’allieva di Rodin, era nata alla fine dell’800. Una sera a una cena era seduta accanto al barone Empain, il principale azionista delle miniere di rame Katanga nel Congo belga. Accettò il suo invito a fargli visita in Africa. Aveva già incontrato mio padre, ma lui non voleva sposare una donna ricca e se ne era andato in America per allontanarsi da lei. Ma lei lo seguì e gli disse: “Sono stata invitata in Africa dal barone Empain. Devi venire con me!” E lui disse: “No!” E lei disse: “Sì!” Lui non aveva niente e lei aveva tutto, così vinse lei».
Perché ha deciso di fare la fotografa?
«Secondo mia madre le ragazze dovevano rendersi indipendenti. Non tanto da avere una vera e propria carriera, ma almeno hobby seri su cui contare in caso di necessità. Mi suggerì la fotografia. Aveva un parente direttore di Vogue, un altro direttore di Le Jardin des Modes. Mi presentarono un meraviglioso giovane fotografo russo, Harry Meerson. Avevo 19 anni e fui completamente stregata da lui che mi insegnò i primi rudimenti».
Perché è tornata in Africa?
«Mio padre aveva avuto un incidente a cavallo e si era rotto la schiena. Non sapevano se sarebbe sopravvissuto. Ma una volta tornata in Africa, dopo Parigi, non la sopportavo più. Era tutto così noioso. A 22 anni andai a New York e mi iscrissi alla New York School of Photography».
Quando si è sposata?
«Tornata in Kenya nel 1957, ricevetti una telefonata da uno sconosciuto: “Stiamo girando un film, siamo al bar di un night club e dietro al bancone ci sono le foto più belle che abbiamo mai visto”. Volevano assumermi e fissai un appuntamento per le 11 del mattino successivo. C’era Lorenzo, vestito di bianco, sandali di cuoio, capelli biondi e ricci fino alle spalle, che strimpellava la chitarra. L’ho sposato, un tumultuoso matrimonio con un uomo che non era fatto per la famiglia. Era, come lui stesso diceva: “Un vagabondo, uno zingaro, senza scopo né direzione”. Ma io lo amavo. Non era amore – era un’ossessione. Durata 40 anni».
Ed è stato utile per la sua carriera?
«Per dieci anni abbiamo vissuto a Roma. Era il periodo d’oro del cinema italiano, tra la fine degli Anni 50 e i primi Anni 60, Fellini e Antonioni e così via. Eravamo in quel giro. Aspettavo che emergesse, perché non ho mai voluto affermarmi personalmente. Volevo vivere all’ombra di un uomo, non fargli ombra. Ho lavorato con Antonioni ne L’eclisse (1962) e sono andata a Hollywood ma non mi interessava. Prima del provino dissi: “No grazie”. Mio marito non me l’ha mai perdonato. Quando il mio matrimonio crollò, lo lasciai e andai a vivere a Parigi con i bambini. Riscossi le commissioni del libro Vanishing Africa e tornai in Kenya portando i bambini con me».
Aveva una passione per gli africani?
«Sin da quando ero piccola, mia madre mi ripeteva quanto fossero belli gli africani. Mi diceva: “Guarda come camminano, guarda che portamento, e che mani. Guarda la grazia con cui si muovono”. Quando si trattò di fare delle fotografie, mi vennero in mente quelle cose e le ho cercate. Era un punto di vista puramente estetico».
Fu lei a scoprire Imam, giusto?
«Mio fratello a Nairobi aveva un’agenzia di viaggi. Un giorno vidi questa creatura da sogno e dissi: “E quella chi è?”. Mi rispose: “Ah, era la mia segretaria, ma non vale nulla, l’ho licenziata”. Le proposi di farsi fare qualche foto, la portai da Peter Beard. Lui la fece truccare, pettinare e le fece un servizio fotografico in perfetto stile newyorkese. Poi mise le foto sulla scrivania di Wilhelmina Cooper, l’agente delle modelle. Il resto è storia».
Che tipo di foto fa oggi?
«Mi sono convertita al digitale. Non mi sono mai considerata una fotografa, piuttosto sono una pittrice frustrata, non so né dipingere né disegnare. Adesso che posso usare la macchina fotografica insieme al computer, invece, posso finalmente dipingere».
traduzione di Carla Reschia