La Stampa, 10 febbraio 2018
Intervista a Ennio Fantastichini: Sono timido e odio il tappeto rosso. Sento la responsabilità dei miei ruoli
Fra pochi giorni compirà 63 anni. Ironizza su acciacchi e scherzi della memoria, ma ha una vitalità contagiosa e la voglia di raccontarsi. Al ragazzino che, quindicenne, approdò a Roma col sogno di fare l’attore, Ennio Fantastichini dice di guardare con distacco, ma curiosità e passione sono rimaste le stesse: «Non ho la sindrome di Peter Pan. Io sono Peter Pan». Se un attore giovane lo colpisce, cerca il numero e lo chiama: «Provo un piacere immenso nel dirglielo». Gli è successo anni fa con Fabrizio Gifuni, poi con Luca Marinelli, protagonista di Fabrizio De André – Principe libero, in cui Fantastichini è il padre del cantautore.
Passa il testimone, come fece con lei Volonté ?
«Luca mi ha fatto rivivere la ferocia di certi straniamenti di Gian Maria che si dimenticava di se stesso quando recitava. Questione respiri, di sensazioni, del lavoro che fai sul corpo, sulla battuta. Fra artisti c’è un rapporto di affinità elettive ed emotive. Tutti quelli che amo sono un po’ malinconici, Bruno Ganz, Ryan Gosling, Ed Norton, qualcuno anche un po’ maledetto, come Gary Oldman. Quando ho visto Marinelli cantare in Lo chiamavano Jeeg Robot, la ricerca della postura e dello sguardo mi hanno emozionato. Non vedevo quello sprofondamento da tanto tempo».
Nel film su De André il ruolo del padre è caricato di molta importanza. Come lo ha vissuto?
«Ho cercato la tenerezza che c’era fra loro, ma anche l’autorevolezza che ha trasmesso al figlio. L’amore determina l’imprinting, anche quando uno spirito anarchico, così indipendente e misterioso, magari non lo accetta. Abbiamo raccontato il rapporto fra loro attraverso momenti molto intimi. Sono felice di far parte di questa televisione “pedagogica”, anche se rappresentare la vita di persone reali è difficile, c’è sempre qualcuno a dire che la resa non è aderente al vero. Ma l’importante è essere credibili».
È così che si avvicina a copioni e personaggi?
«Sono un timido e odio il tappeto rosso. Per me il mestiere d’attore è solitario, interiore. Non appartengo alla categoria di quelli che dicono: mi diverto e mi pagano pure. Quando ho interpretato Falcone, sono arrivato a Palermo e ho portato dei fiori sulla sua tomba. Gli ho chiesto di aiutarmi a raccontare la sua storia. Con gli anni questa sensazione si fa minacciosa: da giovane hai il diritto di sbagliare. Oggi sento la responsabilità».
Difficile scegliere?
«Mi fido dell’istinto. Quando incontro un regista che non conosco gli do appuntamento in un baretto del Gianicolo. Se è un tipo ansioso vado in paranoia. L’ansia, usata nel modo giusto, è produttiva, se no è devastante. Gianni Amelio durante le riprese de I ragazzi di via Panisperna, mi raccomandava di tenere su il cast perché, anche se giovane, avevo più esperienza. “Lo so che te la stai facendo sotto, ma non si deve vedere”, mi disse. Consiglio fondamentale».
Paura anche con ilRe Learche sta interpretando ora a teatro?
«Non ho mai vissuto il tormento amletico, ho sempre sentito più trasporto per i testi del ‘900. A farmi superare le remore, anche per l’impegno fisico, è stato il regista Giorgio Barberio Corsetti che quando ero ragazzo è stato il mio mentore, fondamentale nell’affabulazione che ha esercitato su di me. Lui e Valerio Binasco sono guerrieri del teatro, con un’ossessione non pericolosa. Guardo alla tragedia da padre: al disagio di un uomo che non capisce che non si possono monetizzare i sentimenti, che essere assecondati non significa essere amati».
Per lei, tanti bei ruoli di padre.
«Ho un figlio e con i miei personaggi cerco di non ripetere gli errori che faccio con lui. Lorenzo vuole diventare attore. Sono disperato, perché so quanto sarà costoso in termini di emotività. Dipinge anche, da bambino passava tanto tempo nello studio di mio fratello scultore. Gliel’ho detto: lo abbiamo rovinato questo ragazzo. Amo cucinare per lui e per i suoi amici, chiacchierare intorno al tavolo».
Alla Ozpetek?
«Lui è uno specialista nel trasmettere questo umore. Dalla tavola passa tutto: il carattere delle persone, i desideri. La cucina è anche integrazione. Io amo la tradizione, ma sono un avventuriero. Posso cominciare con un crostino toscano, poi pollo tandoori e finire con un dolce di cocco. A proposito di Ferzan…».
Cosa?
«Penso a un signore che per la strada mi abbracciò, confidandomi che il figlio era omosessuale e che avermi visto in Mine vaganti gli aveva cambiato la prospettiva. Colpire al cuore anche una sola persona rende il mestiere antropologico, sociale. Lunedì comincio le prove di Tempi nuovi di Cristina Comencini, con Iaia Forte. Un testo intelligente che sviluppa l’idea della barbarie digitale con amarezza e ripensamento, ma anche in chiave comica. Come nella tradizione della commedia all’italiana di Scarpelli, Monicelli, Germi. Sorridi, ma ogni tanto ti arriva un bel calcio nel sedere».
Come inFerie d’agosto? Nel 1996 raccontava di una sinistra disorientata di fronte all’avanzare del nuovo.
«Con Virzì ci siamo detti che sarebbe bellissimo fare il seguito. Riprendere quei personaggi, che erano tutto sommato innocenti a confronto con oggi. Vedere quanto è cambiata la commessa di Sabrina Ferilli, quello che i cocci li buttava a mare “perché tanto so biodegradabili”. O il mio personaggio che per dimostrare il suo senso della democrazia diceva: “Guardi che io i partiti li ho votati un po’ tutti”. Oggi ogni cosa è “fake”. Siamo assuefatti a una televisione pericolosa, che dovrebbe invece trasmettere conoscenza, raccontare le storie di un’Italia che ha dovuto ricostruirsi più volte identità, senso etico».
Credibilità, passione, memoria, e…?
«Gentilezza. La vita già ci regala situazioni spiacevoli. Trovo più interessante cercare di abbracciarsi che uccidersi. Mi piacerebbe un mondo in cui le persone recuperassero il rispetto, e cominciassero le loro giornate con un atto gentile».