La Stampa, 10 febbraio 2018
Il valore delle azioni bruciate in cinque giorni
Le Borse archiviano la peggiore settimana degli ultimi sette anni. È costata complessivamente cinquemila miliardi di dollari la correzione subita dai listini di tutto il pianeta in scia alle turbolenze di Wall Street, che alla fine ha beffato tutti chiudendo la seduta con un rimbalzo dell’1,38%. A pesare per tutta la settimana sono stati i timori di una stretta sui tassi Usa, che hanno fatto scattare una serie di prese di beneficio dopo la lunga cavalcata di rialzi.
Il Ftse Mib ieri ha lasciato sul terreno l’1,33% mentre il Ftse All Share ha ceduto l’1,59%. Male anche Parigi (-1,41%), Londra (-1,15%) e Francoforte (-1,25%) che hanno pagato come Milano il desiderio degli investitori di ridurre la loro esposizione in vista del weekend dopo le incertezze di questi giorni.
Il primo segnale preoccupante era arrivato una settimana fa, con la chiusura americana di venerdì 2 febbraio a -2,5%. Lunedì la mazzata: -4,6%, con un minimo intraday di oltre sei punti di ribasso. Grande preoccupazione sui mercati, tutti gli analisti a chiedersi se era l’inizio di qualcosa. Martedì le Borse europee hanno aperto la giornata in fibrillazione, chiudendo tutte in calo di oltre due punti. Ma gli americani – esattamente come ieri – hanno beffato il vecchio continente, col Dow Jones che ha messo a segno un rimbalzo del 2,3%. Sospiro di sollievo. Mercoledì le Borse europee hanno ripreso fiato (+2,8% il Ftse Mib) e Wall Street ha chiuso in parità. Giovedì la nuova doccia fredda. Il Dow Jones di nuovo giù in picchiata: -4,1%. Il segnale sembrava chiaro: quella di lunedì non era stata solo una scivolata. E così sui listini europei ieri sono scattate ancora le vendite.
In una settimana, il Dow Jones ha lasciato sul terreno circa duemila punti, il 5,2%. Il Ftse Mib è passato da 23.200 punti a circa 22.200, perdendo il 4,4%.
La domanda che ora si fanno tutti è: cosa ci dobbiamo aspettare? Difficile dirlo. I dati macro sono tutti positivi, a innescare i primi cali è stato anzi proprio l’aumento dei salari Usa, segno che l’economia tira. Ma gli investitori decidono sempre sul futuro, mai sul presente. E quindi su ciò che questi dati potrebbero provocare. «Il rischio maggiore non è un rallentamento della crescita ma una sua accelerazione, e quindi una reazione a sorpresa della Fed», riassume al Wall Street Journal Ken McAtamney, un gestore della William Blair di Chicago. Ma la preoccupazione riguarda anche l’Europa. La crescita potrebbe spingere la Bce ad anticipare la fine della sua politica ultraespansiva. Da tempo i tedeschi premono in questa direzione. D’altra parte, qualora questo avvenisse, sarebbe anche il segnale di una ripresa ormai solida. Quale lettura prevarrà?
Il 2017 ha portato crescita associata a poca volatilità. Molti analisti si aspettano per il 2018 ancora crescita, ma con decisamente più volatilità.