La Stampa, 10 febbraio 2018
Un santo a cui votarsi
Nella competizione delle nuove proposte, l’altra sera, un ragazzo nero (italiano, del tutto italiano) è finito ultimo e mia figlia indignata ha urlato: «Ma allora sono razzisti!». E io ho pensato che questa cosa ci sta sfuggendo di mano, ci sta facendo perdere la testa, ho detto: «Se è arrivato ultimo è perché non è piaciuta la canzone» e ho sperato che l’altro ragazzo nero (italiano, del tutto italiano) finisse primo perché non ne potevo più. Soltanto non ne potevo più. E poi l’altro ragazzo nero è arrivato primo e mia figlia ha sorriso e ho capito che forse potevano arrivare due o tre ore di pace sul divano. Qualche ora senza ringhiare coi padri e coi figli, a darsi degli xenofobi o degli incoscienti, sulle stesse note delle piazze di Macerata, sbronzi di sé, di questo cieco amore di sé. Lì soltanto a commentare il lifting del presentatore e la giacca del cantante, soprappensiero, anzi sotto pensiero, in un dormiveglia della rabbia, in un’improvvisa tregua come il Natale in trincea, ad aspettare il comico, noi col sorriso prestampato, nella speranza che avremmo riso e infatti avremmo riso anche se non faceva ridere, di nuovo impietosi, ma allegramente, a dire questa canzone fa schifo, ma quella dopo fa veramente schifo, mai quanto quella dopo ancora, solo per riderci su, e infine cantare in coro «Poster», come da ragazzi, sui miracoli vocali di Giuliano Sangiorgi, e scoprire che certe volte, quando non si sa a che santo votarsi, basterebbe votarsi a San Remo, dedicarsi un po’ di questa sciocca, meravigliosa leggerezza tutti i giorni dell’anno.