Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2018
Budget Usa biennale e via il tetto al debito
La turbolenta politica americana scioglie uno dei grandi nodi che la strangolava, quello del budget. E lo fa con un raro accordo bipartisan tra repubblicani e democratici, tra Casa Bianca e Congresso. Vara una finanziaria-quadro, votata durante una maratona notturna e firmata ieri da Donald Trump, per i prossimi due anni. Che allontana assieme due spettri capaci di tenere con il fiato sospeso non solo il Paese ma, per lo status del Paese di superpotenza economica oltre che militare, anche la platea internazionale: gli “shutdown” a singhiozzo, le paralisi per quanto parziali del governo, e i default, sollevando o meglio sospendendo formalmente il tetto sul debito pubblico, oggi pari a 20.456 miliardi, fino al marzo del 2019.
Il compromesso, sancito dal riemergere d’una coalizione moderata nei due partiti, solleva nuovi interrogativi, se non immediati per il futuro: su tutti proprio il fardello di deficit e debito federale. Gli aumenti di spesa programmati per 300 miliardi – oltre 400 miliardi sommando stanziamenti staordinari – minacciano di aggravare una spirale già innescata dall’ambiziosa riforma delle tasse, che se nei piani dell’amministrazione dovrebbe rafforzare crescita e competitività appare di sicuro destinata a scavare nuovi passivi nella casse federali – 1.500 miliardi in dieci anni.
Ma l’atto bipartisan archivia, almeno temporaneamente, controverse crociate sul rigore fiscale che pure avevano segnato le campagne elettorali conservatrici. Ammaianate appaiono le bandiere ideologiche di “Starve the beast”, affamare il governo per circoscriverne al minimo la missione. E dimenticata è anche la recente enfasi su drastici tagli a enti e ministeri – dalla cultura agli aiuti all’estero – invocati Donald Trump.
L’intesa, in 600 pagine, prescrive aumenti che accontentano sia repubblicani che democratici, nonostante le resistenze: un forte incremento del budget militare, 165 miliardi (80 il primo anno, 85 il secondo), senza il quale il Pentagono denunciava l’impossibilità di pianificazioni. Come anche significative nuove spese sociali (130 miliardi nel biennio), dall’assistenza sanitaria a piani per infrastrutture (20 miliardi). Ulteriori 80 miliardi vanno a soccorsi per i disastri naturali, dagli uragani a Portorico agli incendi in California. Il Congresso si è dato sei settimane per tradurre in pratica l’intero compromesso con provvedimenti per le singole attività governative.
Il risultato non va sottovalutato. Gli shutdown anche quando brevi – l’ultimo, nella notte di venerdì è passato di fatto inosservato – mostravano una Washington irresponsabile e prigioniera di un clima tossico. Mentre i tetti congressuali sul debito possono periodicamente innervosire mercati e investitori già scossi da incertezze. Il “nodo” del budget era ormai stretto al collo del governo da anni, frutto di un accordo del 2011 che per controllare i passivi istituiva il cosiddetto “sequester”, cioè riduzioni automatiche e generalizzate di spesa per 1.200 miliardi in dieci anni. L’effetto dirompente si simili sforbiciate era stato evitato da due deroghe, nel 2013 e 2015, ormai scadute. La nuova intesa supera adesso di slancio simili tagli, che avrebbero congelato nel 2018 i forzieri militari a 549 miliardi e quelli sociali a 516 miliardi. Ma se a Washington stia scoppiando una più proficua stagione di pace oppure sia in corso solo una tregua è presto per dirlo: le potenziali crisi all’orizzonte non mancano. Dal capitolo dell’immigrazione, stralciato e in agenda fin dai prossimi giorni. Al commercio che resta agitato da pulsioni protezionistiche. Il nodo della politica, nell’imprevedibile era di Trump, potrebbe ancora stringersi al collo dell’economia come della diplomazia, domestica e internazionale.