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 2018  febbraio 11 Domenica calendario

Rubai Wagner a 10 anni di nascosto a Toscanini. Intervista a Maurizio Pollini

Artisti come lui non riesci a immaginarli separati dallo strumento. Maurizio Pollini e il pianoforte. Maurizio Pollini è il pianoforte. Seduto sul divano della casa milanese, composto, elegante, le gambe accavallate, racconta muovendo impercettibilmente le dita, come se a ogni parola corrispondesse un tasto. E quando la conversazione si anima, le gambe scattano e pigiano su pedali invisibili, confessa il maestro, settantasei anni. Il Duomo è lì dietro, la Scala appena più in là, ma qui Milano non entra; silenzio, neanche la sirena di un’ambulanza o il brusio dei passanti. L’arte è di casa, evidente, palpabile, mai ingombrante, una raffinata miscela di classicismo e modernismo, con le prospettive a china incorniciate di Gino Pollini, il papà architetto, ammiratore di Walter Gropius e Le Corbusier, membro fondatore, nel 1927, del Gruppo 7. «Viviamo qui dal 1970», racconta la moglie Marilisa, allegra, generosa compagna di una vita, musa e interprete dell’artista introverso e silenzioso. «Ricordo ancora le liti con i vicini nel vecchio appartamento, a loro poco importava che mio marito si esibisse alla Carnegie Hall», ricorda. E quando il pianista comincia a raccontare della sua Milano, dei maestri Lonati e Vidusso, del concorso Chopin di Varsavia, vinto a diciotto anni, discretamente si dilegua in cucina a preparare la cena. La lista degli amici e degli eventi è impressionante, un dizionario della musica contemporanea: Nono, Stockhausen, Boulez, Abbado. Di politica parla men che volentieri. Poche parole, taglienti, le disse a Ivan Hewett del Telegraph nel 2010, in questo stesso salone: «Berlusconi è un disastro totale». Oggi: «Ridicolo e deprimente che possa riaffacciarsi qualcosa del genere», taglia corto. Sorride, finalmente, parlando del nuovo cd, Debussy: Preludes II (Deutsche Grammophon). «Sono le ultime composizioni di Debussy, la novità è la collaborazione con mio figlio Daniele nei Tre capricci en blanc e noir per due pianoforti». (Daniele Pollini, figlio unico, pubblicherà il suo cd in primavera).
Come mai avete aspettato tanto per suonare insieme?
«Daniele ha la sua vita, la sua carriera, ma ci sono questi incontri fortunati…».
Quando Daniele le disse che voleva fare il musicista cercò di scoraggiarlo?
«Tutt’altro. C’è stato un momento in cui lo spronavo, all’epoca non era d’accordo. Poi fu lui, liberamente, a volerlo fare».
Mai contrasti fra voi? Daniele sembra orientato sul repertorio a lei più caro.
«Sì e no. Nel suo disco ci sono Chopin, Scriabin e Stockhausen. Scriabin, per esempio, è un autore che io non ho frequentato molto».
Lei, al contrario, non fece il lavoro di suo padre, fu chiaro da subito: a nove anni il primo concerto.
«Mai pensato di fare l’architetto. La passione per la musica si è rivelata completamente dopo il concorso di Varsavia, nel 1960. Lì decisi di fare il pianista».
Eppure arrivò a Varsavia preparatissimo, fece sensazione al concorso.
«Sì, ma non con l’idea forte di vincere né di fare una carriera. Tutto fu fatto in uno stato di relativa ingenuità. Dopo Varsavia mi trovai nella condizione di dover affrontare un futuro come concertista, le richieste furono moltissime. Ero impreparato a queste domande pressanti, ad affrontare una carriera di ampio respiro. Presi del tempo, per un anno e mezzo interruppi l’attività concertistica e mi dedicai allo studio. Avevo bisogno di arricchire il repertorio. Avevo studiato Mozart, Schumann, Beethoven, avrei poi approfondito il repertorio moderno, l’opera di Schönberg, la Seconda sonata di Boulez, un pezzo molto importante del repertorio contemporaneo, mi sarei avvicinato a Luigi Nono, che nei Settanta scrisse due pezzi per me. Glielo chiesi con una notevole audacia; non sembrava interessato a scrivere musiche per pianoforte, invece poi ne scrisse una per piano, orchestra, voce e nastro, e un’altra per piano e nastro… Sofferte onde serene…».
Da chi ha ereditato la passione per la musica?
«Da tutta la famiglia. Mio padre era architetto e amava il violino, mia madre suonava il pianoforte e cantava, lo zio materno, Fausto Melotti, era uno scultore melomane. La musica era nel dna familiare, e c’era una tendenza verso la modernità; i miei amavano Debussy, Ravel e Stravinsky, vi era in casa un interesse per tutte le arti che in qualche modo ho assorbito e ereditato, naturalmente, senza alcuna pressione».
Fu Toscanini alla Scala la prima folgorazione?
«Avevo dieci anni, fu emozionante, ma non ero in grado di seguire, di capire quel che faceva. Era un concerto wagneriano, una prova in cui entrai di nascosto. Poi, nel periodo seguente, ebbi l’occasione di assistere a molti concerti di grandi artisti, direttori d’orchestra, pianisti, da Rubinstein a Walter Gieseking, da Backhaus a Benedetti Michelangeli. C’era una fervida attività concertistica nella Milano di allora. Tra i direttori, trionfavano Furtwängler e von Karajan. Ricordo un Wozzeck diretto da Dimitri Mitropoulos che scandalizzò il pubblico».
Fu Chopin la sua prima infatuazione musicale?
«No, prima ci furono le Passioni di Bach e gli ultimi quartetti di Beethoven eseguiti dal Busch Quartet. Chopin è arrivato molto dopo. E anche Mozart».
Chi sono gli artisti che considera i suoi punti di riferimento?
«Toscanini, Furtwängler, Bruno Walter e i grandi pianisti che ho conosciuto, incontrato e apprezzato per la loro straordinaria diversità, ah i pianisti di allora! Tutti con personalità diversissime, suonavano in modo unico! Oggigiorno si assomigliano tutti. Fra Rubinstein, Benedetti Michelangeli e Vladimir Horovitz – che non veniva a suonare in Italia – la differenza era enorme…».
Il suo posto è fra loro. Unico anche lei.
«Per carità, no, no… (schiva le lusinghe, ndr). Ci si forma l’idea di un pezzo musicale molto forte e molto propria, non potrebbe essere diversamente. L’esempio dei grandi pianisti del passato ci fa capire come sia possibile interpretare in modo diversissimo la stessa musica, pur rispettando lo spartito».
Quanto è stata importante la sua amicizia con Stockhausen, Nono e Boulez?
«Imporre un repertorio contemporaneo nei concerti è ancora tutt’altro che facile a causa della deriva commerciale della musica che impedisce scelte coraggiose e necessarie. Si poteva fare di più e in forme diverse. Non si è fatto quel che si poteva e doveva fare. Nel dopoguerra abbiamo avuto una serie di compositori italiani di alto livello – Nono, Berio, Bussotti, Donatoni, Clementi, Castiglioni, Manzoni, Evangelisti – una fioritura formidabile, oggi tutt’altro che valorizzata. Non possiamo mica fermarci all’Ottocento».
C’è un ritorno al romanticismo, al neo-tonale, molti giovani di conservatorio guardano in questa direzione, come se la musica contemporanea avesse creato un gap emozionale.
«La musica contemporanea convoglia semplicemente emozioni diverse. Oggi vengono eseguiti soprattutto compositori classici, ma c’è anche tutta la musica antica – Monteverdi, Josquin Desprez, Carlo Gesualdo – che è straordinaria e non completamente valorizzata. Non sono certo entusiasta della deriva neo-romantica. È un tentativo di tornare indietro».
Quanto si deve sacrificare per arrivare al punto in cui è?
«La musica mi dà moltissimo, le ore di studio sono una grandissima gioia. Anche la ripetizione all’infinito dello stesso pezzo nulla toglie al godimento della musica. Nessun sacrificio».
Avrebbe mai pensato, all’epoca in cui preparava il concorso Chopin, che sarebbe arrivato un tempo in cui qualcuno sarebbe stato chiamato artista senza saper far nulla?
«Non mi avrebbe sfiorato l’idea! Per fortuna guardo poco la tv. La musica è sempre una buona cura, compensa anche le delusioni politiche e i problemi sociali… ma fino a un certo punto. Qualche volta arrabbiarsi è inevitabile».