la Repubblica, 5 febbraio 2018
Le zone d’ombra dei calciatori: Cassano, Ibrahimovic, Thierry, Ribery,
Il francese Dacourt ha raccolto in un film le confessioni di 5 calciatori, tra cui Ibra e Cassano, sui loro fantasmi. Un lavoro nato dal suicidio di un amico. “La felicità? Stare nascosti”
LIONE
Nella sua lunga carriera passata anche da Roma e Inter, il francese Olivier Dacourt tutte le volte che è sceso in campo non poteva che pensare ad Alex. Era il suo compagno di stanza nella scuola calcio di Strasburgo. Si suicidò e nessuno ne comprese il motivo. Non c’era nemmeno voglia di scoprirlo.
«Non ne parlavamo mai tra compagni, con la società. Caso rimosso», ricorda Dacourt, 43 anni. Non per lui che se l’è trascinato di stadio in stadio.
Finché l’anno scorso ha incontrato il fratello di Alex, ha capito e si è pacificato col suo fantasma.
«Questione intima, non divulgabile per rispetto». Nel lungometraggio che ha appena firmato (con Marc Sauvourel) e che ha presentato al V Festival sport, letteratura e cinema di Lione, Dacourt racconta per la prima volta la storia. Il film, 85 minuti, ha per titolo Ma part d’ombre, la mia zona d’ombra. La sua e quella di altri sei campioni che si sono prestati per la confidenza. «Con altri non lo avrebbero fatto». L’idea di partenza: «Umanizzare i calciatori visti come ragazzi ricchi e viziati».
Mostrare la faccia scura della luna, il tallone d’Achille degli dei contemporanei. Tarli che hanno origine nell’adolescenza, in irrisolti legami familiari.
L’ italiano della pellicola è Antonio Cassano, compagno di Dacourt alla Roma, «il più dotato dopo Zidane, un genio davvero. In allenamento era capace di cose straordinarie. Gli chiedevo: come hai fatto? Rispondeva: non lo so».
Erano colpi irripetibili perché, avrebbe detto Carmelo Bene, Cassano non giocava a calcio, era giocato dal calcio, era inconsapevole come tutti coloro a cui il talento è stato infuso.
Antonio è guascone anche nel film, ricapitola i litigi con gli allenatori, lo spirito ribelle che gli ha nuociuto. Col rammarico di una carriera modesta rispetto alle possibilità. Ammette: «Avessi avuto un padre a insegnarmi la strada giusta forse sarebbe andata diversamente». Il padre lo aveva abbandonato per formarsi un’altra famiglia quando aveva dieci anni, «già allora decidevo io se andare a scuola o no».
Tergiversava, il genitore, stretto tra due compagne e due sentimenti: «Gli dissi di scegliere o con noi o con l’altra. Scelse l’altra, non l’ho più voluto vedere». Da adolescente a capofamiglia. Gioca a calcio nelle strade di Bari Vecchia per denaro: «Sceglievo la squadra che mi pagava di più. Mi davano 3-5 mila lire perché con me si vinceva. Con quei soldi potevo mangiare, io ho conosciuto la fame». Non il principio d’autorità, fonte degli errori che gli hanno impedito il salto nella categoria dei fuoriclasse.
La fame l’ha patita anche Zlatan Ibrahimovic nel ghetto di Malmö, da immigrato bosniaco. Dove ha imparato che per sopravvivere nella giungla doveva essere gradasso, rodomonte. Sfidare i coetanei e i più grandi di lui alla stessa maniera di Muhammad Ali.
Postura talmente interiorizzata da essere ripetuta fino all’antipatia quando per identificarlo basterà il nome Zlatan. Un antidoto anche al razzismo strisciante di cui sente di essere stato vittima «nella Svezia dove ho vinto undici volte il premio come miglior giocatore ma ho scontato il difetto di non essere biondo e di non avere un cognome che finisca in “sson”. Ho avuto sempre la stampa contro, non mi hanno perdonato le origini».
L’incubo di non essere accettato è in un episodio recente: «Stavo a passeggio col mio cane in un quartiere di gente ricca e ho incontrato un signore che mi ha riconosciuto e mi ha chiesto: Ibrahimovic cosa ci fai qui? Io di rimando: e cosa ci fai tu qui?».
Arroganza? «No, protezione di me stesso». Come quando con i francesi si paragonò alla Tour Eiffel: «Si dice dei francesi che siano arroganti. Dunque mi sono adeguato e sono come voi. La verità è che mi piace innervosire, creare scandalo».
Da una banlieue arriva anche Frank Ribéry. La sua zona d’ombra è la cicatrice che gli segna in verticale il viso. Non ha mai chiarito come se la sia procurata.
Ne è stato segnato, «quando vedo una persona handicappata verso la quale non c’è rispetto divento nervoso». La menomazione gli ha «dato carattere». Utile a sopportare un rovescio di popolarità in un quadriennio. Nel 2006 era l’enfant gâté della Francia tutta, nel 2010, come lo definì una ministra dello sport «un delinquente immaturo». Lui non dimenticherà mai le offese. Che hanno avuto origine nel dualismo con Yoann Gourcuff, bello, introverso e di buona famiglia.
Due profili inconciliabili nella nazionale di cui dovevano essere leader. Frank diventò così impopolare che nel 2013 «quando meritavo il Pallone d’oro, una buona fetta dei miei connazionali non era d’accordo. Preferivano Messi o Ronaldo». Con la Francia ha chiuso e chissà se ci tornerà a vivere.
Ha scelto di risiedere a New York, lontano dall’Esagono, anche Thierry Henry. Il gol che fece con la mano all’Irlanda per le qualificazioni al Mondiale 2010 lo aveva reso emblema della truffa.
Ma erano più profondi i dolori.
Quando faceva gol, era impossibile vederlo anche soltanto sorridere. «Ho pagato per questo, perché bisogna celebrare, esagerare». Una voce che gli arrivava dal profondo, la voce del padre, lo ammoniva: “Hai sbagliato Thierry, hai sbagliato, sbagliato, sbagliato”. Non si accontentava mai quel genitore eccessivo, «e io mi sono costruito la mia corazza». Una sola cosa voleva Henry: «Veder mio padre sorridere». Non è successo. A favore di telecamera sostiene: «Oggi lo ringrazio per avermi spinto a migliorarmi». Gli occhi lo tradiscono: dicono il contrario.
Ha rotto con la famiglia Emmanuel Adebayor, attaccante del Togo. Quando lasciò l’Africa a 14 anni voleva solo giocare al calcio. «Loro pensavano alla gloria e ai soldi. Io non sapevo cosa significasse essere ricchi. Era un’ossessione, volevano tutti i guadagni. A 16 anni pensai al suicidio, dovevo essere il riscatto dell’intero clan. Un peso insopportabile». Un fratello arriverà a mettergli un coltello sotto la gola.
Olivier Dacourt porta un cappello in testa per mimetizzarsi. «Non voglio mi riconoscano, per essere felici bisogna stare nascosti». Il suo progetto non prevede una tesi. Storie simili ce ne sono altre. Ma part d’ombre è solo il riscaldamento.
COSE BUONE PER ANTEPRIMA