https://magazine.esemdemi.it, 6 febbraio 2018
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Il caviale di Cechov e di Tolstoj
«Io mi annoio. Non nel senso della Weltschmertz, non nel senso della nostalgia della vita, ma, semplicemente, io mi annoio senza uomini intelligenti, senza la musica che amo e senza donne, che non esistono qui a Jalta. Io mi annoio senza caviale e senza choucroute»Anton Cechov, Lettera a Maksim Gorkij, 15 febbraio 1900Crimea, inverno del 1901. Fuori fa freddo, freddissimo, praticamente si gela. Tra Jalta e Gaspra, due cittadine delle costa, non ci sono più di 10 chilometri di strade sterrate. I campi di patate dell’entroterra sono ghiacciati e coperti di neve, il mar Nero si merita il nome che ha e le anime che popolano la penisola si guardano bene dal mettere il naso fuori di casa. Gente povera. Contadini e pescatori perlopiù. Ma in mezzo a quelle anime semplici, in quell’inverno così freddo, a fare i conti con i fantasmi crimei, a pochi minuti di calesse l’uno dall’altro, ci sono anche le due penne più grandi di Russia. Del mondo intero, forse.
Lev Tolstoj era vecchio e malato ed aveva deciso di soggiornare a Gaspra, nel lussuoso castello messogli a disposizione dalla contessa Panina. Alle porte di Jalta, invece, in una piccola casa bianca, poche settimane dopo era arrivato Anton Cechov. È lì per curare la tubercolosi che lo assilla ormai da diversi anni. In confronto allo sfarzo dell’improvvisato ricovero di Tolstoj, quella di Cechov era una casa umile, che lui amava molto perché sorgeva a pochi passi da un vecchissimo cimitero tartaro, silenzioso e deserto. A dispetto delle abitazioni, i sentimenti che si agitano nell’animo di questi due illustri malati hanno tratti opposti a quelli dei muri che li circondano.
Tolstoj e Cechov, si noti l’incredibile sforzo del divano che regge due pilastri della letteratura mondiale.«Tolstoj dice che un uomo non ha bisogno che di tre piedi di terra. Errore!» amava affermare Cechov. «Solo i morti hanno bisogno di tre metri; i vivi, loro vogliono il globo terrestre tutto intero. E soprattutto lo scrittore». I due letterati solevano infatti condurre due stili di vita diametralmente opposti. Tolstoj, che aveva conosciuto il lusso, l’agio e la fama, aveva infine deciso di abbandonare tutto e seguire la dura lezione dell’acqua e del pane. Cechov, al contrario, era tutto feste, banchetti e vita mondana tra i grandi saloni dei palazzi di Mosca e San Pietroburgo. Eppure, entrambi erano finiti a fare i conti con malanni terribili, nel freddo inverno crimeo. «Io mi annoio» scriveva Cechov da Jalta all’amico Gorky «Non nel senso della Weltschmertz, non nel senso della nostalgia della vita, ma, semplicemente, io mi annoio senza uomini intelligenti, senza la musica che amo e senza donne, che non esistono qui a Jalta. Io mi annoio senza caviale e senza choucroute (crauti)».
Scritto da Cechov negli stessi giorni d’inverno durante i quali verga quella lettera, Nella conca narra di un vecchio chierico che, durante un pranzo funebre, adocchiato nel buffet del “caviale granelloso”, si era messo a mangiarlo con inopportuna avidità: «davano urtoni, lo tiravano per la manica, ma egli era come intormentito dal godimento: non sentiva nulla e mangiava soltanto». Divorò tutto il caviale, e nel barattolo ce n’erano quattro libre. Della vita di quel chierico, raccontava Cechov, si dimenticò tutto, tranne di quella scorpacciata di ottimo caviale, irresistibile perfino nella casa di un morto.
Anton CechovDi come piacesse il caviale a Cechov, per una curiosa legge del contrappasso, è proprio Tolstoj a spiegarlo, descrivendo le cene raffinate che erano al contempo quelle del suo collega e di Anna Karenina,: «con un po’ di vodka, aragoste e formaggi serviti in un vassoio d’argento». Dove andarlo a comprare, a San Pietroburgo, sono sempre Tolstoj e Anna Karenina a consigliarlo: da Yeliseevsky, prospettiva Nevsky 56, un negozio di alimentari nel quale già 150 anni fa si serviva quella donna infelice.
Anche oggi l’unico, vero e raro caviale nero del Volga è in vendita a caro prezzo. Infatti, il caviale di storione è sempre più raro. La produzione è calata per colpa degli sbarramenti creati sul fiume; ma Astrakhan, città che si adagia sulla foce del Volga, che già diventa mar Caspio, è ancora la capitale mondiale delle succulente uova. La pesca e la produzione continuano ad avvenire sui grandissimi barconi ancorati sulle placide acque dell’ultimo fiume. Non è necessario, però, avvicinarsi alle banchine per sentire l’odore intenso dello storione, tutta la cittadina ne è attraversata. Ma è in autunno e in primavera, durante la pesca vera e propria, che l’odore si fa più pungente. Poco è cambiato da quando quei luoghi prendevano vita dalla penna dello scrittore Joseph Roth, che nel suo diario dalla Russia descriveva con queste parole la città, nel lontano 1926:
«Ad Astrakhan c’è un piccolo parco con un padiglione al centro e una rotonda in un angolo. La sera si paga il biglietto e si va a sentire l’odore di pesci. Dato che è buio, viene da pensare che i pesci siano appesi sugli alberi».Dalle rive del Volga, i barattoli di caviale hanno da sempre risalito la via fino ad arrivare nei saloni più lussuosi di Mosca e San Pietroburgo. In quelle sale, per lunga parte della sua vita Tolstoj ha goduto del sapore amaro dell’oro nero di Russia. Una prelibatezza che sua moglie Sof’ja Tolstaja amava servire a tutti gli ospiti che solevano essere invitati alle famose merende che preparava per loro. Fedor Dostoevskij descrive così, in “Umiliati ed offesi”, il tavolo imbandito che gli si presentò all’entrata di casa Tolstoj, in una di quelle occasioni:
«Mi ricevette con braccia aperte con delle grandi esclamazioni. In realtà era già un po’ alticcio. Ma ciò che più mi stupì erano i preparativi straordinari fatti per me. Un bel samovar di rame giallo gorgogliava su una piccola tavola rotonda coperta da una tovaglia preziosa. Il servizio da tè, in cristallo, argento e porcellana risplendeva. Su un’altra tavola, coperta da una tovaglia diversa, ma non meno bella, c’erano dei bellissimi dolcini, delle marmellate, degli sciroppi di Kiev, della confettura, della gelatina. Su una terza tavola, che spariva sotto una tovaglia di un biancore accecante, si vedeva la più grande quantità di antipasti: caviale, formaggi, paté, salsicce, prosciutto affumicato, pesci e tutta una armata di caraffe in cristallo finissimo riempito di vodka. Sulla tavola, davanti al divano, si presentavano tre bottiglie: del Sautern, del Chateaux Lafite e del cognac. “Ecco — disse Alexandra Semionova — beviamo un bicchiere di liquore d’oro, poi d’argento e dopo, con l’animo ringalluzzito, attaccheremo con altre bevande… Non preoccupatevi, berremo anche del té con cognac alla vostra salute! Del tè da re, a sei rubli d’argento la libra, che un mercante mi ha portato avantieri. Vedrete che tè! Ecco, questa è vita… Ora ci vuole assolutamente un po’ di vodka…”».Ma se il tempo dei banchetti imbanditi, del cognac e delle confetture per Tolstoj era terminato. Quello del caviale non sembrò tramontare neppure nei frangenti più dolorosi. Negli ultimi anni della sua vita, lo scrittore era diventato una sorta di grande asceta nazionale. Aveva abbandonato tutti gli agi e i lussi passati, inclusi quelli culinari. Era diventato perfino vegetariano, per rispetto di tutte le creature, tranne una: lo storione e le sue prelibate uova nere. Di quelle no, non ne poté fare a meno fino alla fine dei suoi giorni. Del caviale del Volga, fu ghiotto À bout de souffle, fino all’ultimo respiro.
Lev TolstojNell’inverno crimeo del 1901 però, era molto difficile trovare caviale. Da qui il dispiacere e la noia di Cechov, confessata all’amico Gorky. Quello di Jalta e Gaspra era diventato, per i due scrittori, il tempo della privazione. Ma se per Tolstoj era stata una scelta voluta, giunta con l’età, la profonda riflessione e l’avvicinamento al pensiero elementare e umile dell’ortodossia propria dei contadini di patate che abitavano quelle campagne, per Cechov era stato un obbligo. Lo scrittore soffriva di tubercolosi dal 1897, e quegli esili forzati sul mare erano diventati una necessità e una pena. Tolstoj al contrario, amava molto la Crimea, della quale scopriva le bellezze con «una gioia puramente infantile».
Il 7 febbraio del 1902 Tolstoj peggiorò di colpo. Cechov era molto preoccupato e decise di fare visita al vecchio maestro malato che, a detta del medico che aveva in cura entrambi, stava per morire. Prima di partire in calesse in direzione di Gaspra, Cechov si mise a provare diverse paia di pantaloni. Era molto agitato e pur cercando di nasconderla, arginava a fatica l’emozione: «Tolstoj mi spaventa. “Anna sentiva i propri occhi brillare nell’oscurità, li vedeva persino…” Lo ha scritto lui, capite? Mi spaventa sul serio» confida all’amico Ivan Bunin lì presente. Assieme, i due grandi scrittori non avevano bevuto che un té caldo, preparato con un vecchio samovar arrugginito. I tempi del lusso e delle merende a base di caviale e cognac erano finiti.
Al suo ritorno, riferendo dell’incontro all’amico Bunin, Cechov raccontò: «quando ho fatto per alzarmi e prendere congedo, mi ha afferrato per un braccio e ha detto: “Baciatemi”. L’ho fatto, e quel vecchio energico è stato lesto a sussurrarmi all’orecchio: “Non lo sopporto proprio, il vostro teatro. Shakespeare scriveva porcherie, ma voi siete addirittura peggio!”».
L’inverno crimeo tardava a terminare e anche la salute di Tolstoj non sembra migliorare. Cechov, infinitamente preoccupato, confidò agli amici: «Quando morirà Tolstoj andrà tutto in malora, compresa la letteratura».
Ma Tolstoj non morì durante quel soggiorno a Gaspra. E anche Cechov riuscì a resistere alla tubercolosi e alla mancanza di caviale e crauti, nella sua bianca casa di Jalta. Arrivò la primavera per entrambi, ed entrambi tornarono in città.
Tolstoj morì dieci anni dopo. Il suo viaggio spirituale lo aveva condotto in territori sconosciuti. Una notte, ormai oppresso dalla ordinarietà della sua vita, lasciò la grande dimora dove abitava e partì di nascosto, accompagnato solo dal suo medico, in direzione di Gaspra. Desiderava infine tornare in Crimea, in quella terra dove trovare caviale e cognac era, a volte, impossibile. Non ci arrivò mai. Esalò il suo ultimo respiro in una stazione di passaggio.
Per Cechov, invece, la fine arrivò molto prima. Gli attacchi di tisi si fecero sempre più violenti. Nel 1904 dovette tornare a fare soggiorni di salute forzati. Prima tornò a Jalta, e poi decise di seguire la moglie in Austria, nella stazione termale di Badenweiller. La salute sembrava migliorare, ma lo scrittore riprese presto ad annoiarsi, lontano com’era dai crauti e dal caviale. La noia si fece inquietudine e l’inquietudine malattia. Nella notte del primo luglio del 1904, Cechov si svegliò di soprassalto. Al dottore accorso a visitarlo, sussurrò due parole: «Ich sterbe». Dopodiché ordinò dello champagne. Brindò e bevve per l’ultima volta.
Le sue spoglie tornarono a Mosca il 9 luglio, su un treno. Lo accolse tutta la città. Il vagone che lo trasportava recava, per caso, sul fianco, una scritta: “trasporto di ostriche e caviale”. In molti si indignarono. Cechov, probabilmente se la rise.