la Repubblica, 6 febbraio 2018
Sting prima dell’ultimo Sanremo
ROMA
Ha ancora in circolo l’adrenalina dell’esibizione al Super Bowl, dove domenica ha presentato Don’t make me wait, il singolo che ha inciso con Shaggy, davanti a un’audience di oltre 110 milioni di telespettatori. «È stata un’occasione straordinaria, ma che freddo a Minneapolis!», protesta Sting, 66 anni, 200 milioni di dischi venduti come solista e con i Police, 16 Grammy Award, 3 Brit Award, un Golden Globe, un Emmy e 4 nomination agli Oscar. Bisserà domani sera a Sanremo, dove con Shaggy, il 59enne “bombastico” re del raggamuffin rap, canterà la canzone che anticipa l’album 44/ 876 in uscita il 20 aprile e poi omaggerà l’Italia. «Quei numeri sono i prefissi telefonici internazionali dei rispettivi paesi – 44 il Regno Unito, 876 la Giamaica – la nostra dichiarazione d’amore alle due isole», anticipa Sting mentre ci fa ascoltare alcuni brani del cd caraibico in cui torna a indugiare, con voce miracolosamente intatta – quella di Roxanne e Message in a bottle – in territorio reggae e ska. Tornerà in Italia il 15 marzo per la prima di Giudizio Universale – Michelangelo and the Secrets of the Sistine Chapel (e un probabile incontro con Papa Francesco), grandioso spettacolo multimediale ideato da Marco Balich con la consulenza scientifica dei Musei Vaticani allestito all’Auditorium Conciliazione di Roma, per il quale ha composto un tema originale (il resto delle musiche è di John Metcalfe, la voce di Michelangelo è di Pierfrancesco Favino).
A Sanremo per lei è la quarta volta, per Shaggy la seconda (nel 2012 si esibì con Chiara Civello).
Che ricordi ha del Festival?
«La prima volta fu nel 1986, cantai
Russians se non sbaglio. All’epoca non possedevo ancora una casa in Italia ma sapevo che Sanremo era l’evento musicale dell’anno; sarei tornato nel 1995 con This cowboy song e nel 2000 con Desert rose, insieme a Cheb Mami. A quel punto Trudie (Styler) e io avevamo già la villa in Toscana. Il Festival è una celebrazione della canzone e io ho un grande rispetto per la melodia italiana. Mio figlio si chiama Giacomo in onore di Puccini».
Anche se trascorre parte del suo tempo al Palagio non sembra molto interessato al pop nostrano.
«Domani sera si ricrederà, ah ah ah!
Comunque non è del tutto vero, ho collaborato con Zucchero, un grande amico, ho cantato con Pavarotti, conosco bene Nek, ma non resto mai in Italia così a lungo da poter interagire con la scena musicale; quando sono a Figline (Valdarno) devo occuparmi della fattoria, che produce vino e olio.
Vivo negli Usa, ma amo la musica italiana, soprattutto la classica».
Infatti ha inciso a più riprese per la Deutsche Grammophon ed è stato la voce narrante di “Pierino e il lupo” di Prokofiev. Che altro?
«Un Dies Irae. Ho composto la musica sul testo originale e lo canto io stesso, dopo aver preso lezioni di latino, con un coro di otto elementi. Farà parte dello spettacolo sulla Cappella Sistina e il Giudizio di Michelangelo, un resident show a due passi dal Vaticano. Nello stesso periodo The last ship, la mia opera teatrale già rappresentata a Broadway, approderà in Europa, prima data nella nativa Newcastle».
Come le è venuta l’idea di fare
un intero disco con Shaggy?
«All’inizio mi aveva proposto Don’t make me wait. Poi la nostra amicizia si è rafforzata, ci siamo chiusi in studio a scrivere e provare. Alla fine abbiamo scoperto di avere molto in comune. Nonostante le nostre siano voci diverse, siamo riusciti a miscelarle sorprendentemente.
È una strana combinazione sulla carta, ma esplosiva. Mi piacciono la sua energia, il suo modo di cantare unico, e a quanto pare anche a lui piace la mia voce, ah ah ah».
Con Shaggy ha già suonato dal vivo in Giamaica davanti a ventimila persona e a Kingston avete girato il video.
«Non tornavo in Giamaica da vent’anni almeno. Partecipare a quel concerto di beneficenza per un ospedale pediatrico è stata l’occasione per ringraziare l’isola.
Ai tempi dei Police sono stato molto influenzato dal reggae, alcuni dei miei successi dei primi anni Ottanta, come Every breath you take, sono stati scritti in Giamaica».
Chi erano i suoi idoli all’epoca dell’infatuazione reggae e ska?
«Bob Marley anzitutto, ma anche i gruppi reggae che dividevano il cartellone con i primi Police, Steel Pulse, Black Uhuru, Burning Spear».
Dopo i tour trionfali con Paul Simon e Peter Gabriel, sarà ora la volta di Shaggy?
«Fare ai mezzi è uno scarico di responsabilità! Stiamo studiando le date. Suonerò in Europa da giugno, forse con Shaggy. Potrebbe (dice in italiano, ndr). Parlo malissimo, farò una figuraccia a Sanremo».
Canterà in italiano. Volendo in repertorio ha anche un brano nella nostra lingua, “Muoio per te” incisa con Zucchero...
«Potrebbe».
Insieme a Elton John è l’artista più indaffarato del pop, oltre cento concerti l’anno, per non parlare dei dischi, delle attività benefiche come il Rainforest, di cinema e teatro, degli impegni familiari e di quelli agricoli.
«Ho fatto il conto, oltre tremila concerti dagli anni 80 a oggi, che paura! Ma il record spetta a Elton».
Ma lui ora getta la spugna, un ultimo tour e poi a casa. Anche lei ha programmato il ritiro?
«Non ci penso proprio, non ho figli piccoli da accudire, ah ah ha. Sono un cantante disciplinato, lo ero anche all’epoca del punk; se ti mantieni in forma, l’età non è un problema, cantare aiuta a rimanere giovani e in buona salute, non smetterò finché avrò forza».