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 2018  febbraio 06 Martedì calendario

Trump, l’Italia e la disoccupazione

La riforma fiscale americana sta già dando i suoi effetti, almeno in termini di consenso politico. Secondo gli ultimi sondaggi in vista delle elezioni di medio termine di novembre, il vantaggio dei democratici si è dimezzato nel corso dell’ultimo mese, come conseguenza dell’approvazione del pacchetto fiscale e degli annunci di alcune grandi imprese di riportare lavoro – o almeno tasse non pagate – in America.
 
Naturalmente il consenso politico è importante, anzi fondamentale ai repubblicani per mantenere la maggioranza sia al Senato che alla Camera dei Rappresentanti nella seconda parte del mandato presidenziale, ma alla fine quello che conterà saranno i fatti.
La promessa sulla quale Donald Trump ha basato la sua riforma fiscale è che, grazie a questi interventi, l’economia americana crescerà nel prossimo decennio del 3 per cento reale (senza cioè contare gli effetti dell’inflazione). Solo così il rapporto tra debito e Pil, già ai massimi storici, non esploderà.
Si tratta, anche per gli standard americani, di un tasso di crescita decisamente alto, considerando che dal 2001 la crescita è stata in media dell’1,8 per cento. Si dirà, c’è stata in mezzo la crisi. Certo, ma oggi il tasso di disoccupazione è ai minimi storici, un livello che viene considerato di piena occupazione, e ogni aumento della crescita economica sarà possibile soltanto se aumentano la produttività del lavoro, o il totale delle ore lavorate.
Qui entra in gioco un argomento sensibile, non solo nell’America trumpiana, ma anche nell’Italia che si avvicina al voto. L’argomento è l’immigrazione.
Le tendenze demografiche americane, come quelle italiane sono note: negli Stati Uniti, la popolazione in età lavorativa cresceva a un tasso di circa il 2 per cento all’anno nel ventennio 1980-2000, mentre oggi cresce ad un tasso di circa lo 0,1 per cento (dati Bureau of Labor Statistics). In Italia, da qui al 2030, le persone in età da lavoro caleranno di 2 milioni, ad un ritmo di -0,3 per cento all’anno (dati Commissione Europea). Sia per l’Italia che per gli Stati Uniti, questi dati già incorporano gli effetti dell’immigrazione. In particolare, per l’Italia la Commissione Europea stima che l’immigrazione netta darà un saldo positivo di circa 1,5 milioni di persone nel prossimo decennio. Come dire, senza immigrazione la popolazione in età lavorativa in Italia crollerebbe.
Naturalmente, una soluzione per far crescere le ore lavorate senza contare sull’immigrazione ci sarebbe, ed è quello di fare in modo che ogni cittadino americano (e italiano) lavori di più. Oppure che più persone partecipino al mercato del lavoro.
Per quanto riguarda le ore lavorate, il trend è abbastanza chiaro e mostra che si tende a lavorare sempre meno. Per quanto riguarda la partecipazione al mercato del lavoro invece, ci sono ampi margini di recupero, soprattutto in Italia dove ancora troppe donne decidono – o sono costrette dalle circostanze – di non cercare attivamente lavoro.
L’altra alternativa per veder materializzare i tassi di crescita dell’economia stimati dall’amministrazione Trump, e promessi da molte forze politiche italiane, è assumere forti aumenti di produttività. Naturalmente gli effetti dei cambiamenti tecnologici non sono prevedibili come la demografia, per cui sorprese positive possono sicuramente esserci. Ma anche in un Paese come gli Stati Uniti la produttività è calata in questi anni e, per contrastare le dinamiche demografiche descritte, forse non basterebbe neanche un raddoppio della produttività del lavoro rispetto ai livelli attuali.
Insomma, è difficile pensare che gli Stati Uniti possano fare a meno degli immigrati e infatti Donald Trump sta già pensando di regolarizzare 1,8 milioni di irregolari. A maggior ragione è difficile pensarlo per l’Italia dove la produttività è più bassa e la demografia negativa è più accentuata. Se questa è la lettura che ci offrono i dati, alla politica spetta il compito di trovare gli strumenti per attirare dall’estero le persone più adatte alle fabbriche e tecnologie del futuro, piuttosto che avanzare ipotesi di chiusura che, alla fine, sarebbero penalizzanti.