La Stampa, 9 febbraio 2018
I canestri d’oro della Nba. Il più povero vale un miliardo
La sfida contro Manchester United e Real Madrid non è ancora vinta, ma la Nba insidia le vette raggiunte dal calcio. Secondo l’annuale report di Forbes, la lega del basket statunitense vanta tre franchigie del valore superiore ai tre miliardi di dollari – New York, Los Angeles Lakers e Golden State – e per la prima volta il valore di tutte le trenta squadre è a dieci cifre. Un dato che rafforza la già nitida impressione dell’Eldorado Nba, che negli ultimi cinque anni ha visto il valore dei suoi club triplicarsi, arrivando a sfiorare il tetto dei 50 miliardi di dollari complessivi. I Knicks, a secco di titoli dal 1973, guidano la graduatoria per il terzo anno consecutivo, a conferma di un caposaldo della cultura sportiva americana: non sempre il più ricco vince e non sempre vincere porta i guadagni più elevati. Ma inevitabilmente una franchigia a New York porta con sé privilegi in termini di attenzione mediatica e sponsor, mentre il tenore di vita di chi frequenta il Madison Square Garden consente di elevare prezzi di biglietti e servizi connessi all’evento. E in termini economici è un vantaggio anche rispetto al fenomenale show offerto dai Golden State Warriors.
Non solo la tv
I numeri rivelati da Forbes sono la conseguenza della gestione illuminata di David Stern, che nei suoi 30 anni di comando ha investito sul potenziale della Nba, rendendola un marchio globale. Una traccia seguita dal suo vice storico, Adam Silver, commissioner da quattro anni. La sua era è iniziata con il maxi-contratto televisivo da 24 miliardi di dollari per nove anni che ha reso la Nba il campionato su scala mondiale in cui, mediamente, gli atleti sono più pagati. A differenza di altri sport e altri Paesi – vedi il calcio italiano – la Nba non è rimasta a cullarsi sugli allori dei diritti tv, ma ha continuato il processo di evoluzione. Abbattendo la barriera degli sponsor sulle maglie di gara e accarezzando l’idea di attingere dallo sconfinato bacino dei ricavi delle scommesse, qualora il gioco dovesse diventare legale negli interi Stati Uniti.
Il fattore stadio
Un lungo contratto tv è il principale asset, ma non è l’unico dato che le 41 partite casalinghe per ciascuna squadra (playoff esclusi) alimentano la voce botteghino. Le entrate vengono arricchite dai numerosi chioschi all’interno delle arene: mangiare alla partita è parte integrante dell’intrattenimento, e dato che numerose gare sono programmate all’ora di cena – la durata è di due ore e mezza – questa diventa anche una necessità. Nel confronto con il calcio europeo, il valore dei club è diventato competitivo, mentre la voce fatturato marca una differenza netta. A sbilanciare la situazione sono proprio i ricavi dal botteghino, per motivi facilmente intuibili: nella Nba nessuna arena supera i quasi 21.000 posti dello United Center di Chicago, mentre Old Trafford (75.000 posti), Bernabeu (81.044) e Camp Nou (99.354) possono vendere una quantità di biglietti infinitamente superiore. Ma pensare che sia una differenza destinata a durare potrebbe essere fuorviante: 20 delle 30 squadre Nba giocano in arene costruite negli ultimi 20 anni. Ingrandire i teatri in cui si gioca potrebbe essere la prossima idea del basket americano per arricchirsi.