La Stampa, 9 febbraio 2018
Intervista a Padre Bartolomeo Sorge: la mia Chiesa tra Martini e Bergoglio
Gli anni sono quasi ottantanove. Il gesuita padre Bartolomeo Sorge, già direttore di Civiltà cattolica, già artefice della primavera di Palermo che scosse la società mafiosa, il maggiore esperto di dottrina sociale della Chiesa (fresco di stampa, per Queriniana, Brevi lezioni di dottrina sociale), in credito con le gerarchie (correvano gli Anni Settanta quando sfumò la nomina a Patriarca di Venezia, nuocendogli la fama di progressista) è approdato a Gallarate, all’Aloisianum, gesuitica cittadella filosofica. La sua monacale stanza è attigua a quella in cui trascorse gli ultimi tempi Carlo Maria Martini.
Il suo rapporto con Martini. A quando risale?
«L’ho conosciuto negli Anni Sessanta, a Roma. Un incontro più approfondito avvenne nel 1975 alla 32a Congregazione generale (una sorta di Parlamento dei Gesuiti) convocata per adeguare le costituzioni della Compagnia al Concilio. C’era pure Bergoglio. Perfezionai l’intesa con Martini al convegno su “Evangelizzazione e promozione umana” nel 1976. Temi principali: la giustizia e l’impegno politico dei cattolici».
Il lascito di Martini?
«Il suo guaio: nutrirsi solo della Parola di Dio, voler vedere i problemi con gli occhi di Dio, che non sono quelli del diritto canonico».
Martini riteneva la Chiesa in ritardo di duecento anni...
«Sognava una Chiesa giovane, vicina ai poveri, libera dal potere, attenta alle donne. Si capirà che il suo non era un sogno, ma una profezia, avveratasi, che si sta avverando, con Francesco».
Martini invitava a chiedersi «se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale». Quarant’anni fa, la discussa enciclica di MontiniHumanae vitae. Come la considera?
«Sul piano pastorale, inadeguata, la pastorale subordinata alla dottrina. Una linea ribaltata da Francesco: il sabato è fatto per l’uomo, non viceversa».
DallaHumanae vitaealla nuova stagione, l’esortazione apostolicaAmoris laetitia, là dove non si esclude la comunione ai divorziati risposati.
«Non si tratta di svalutare la dottrina, ma di affermare – è un fulcro del Concilio – il primato della coscienza. La Chiesa può formare le coscienze, non sostituirvisi. Non si vive necessariamente nel peccato per il fatto che una norma non sia osservata obiettivamente».
SullaAmoris laetitiaalcuni cardinali hanno manifestato gravi «dubia»...
«Perché stupirsene? A insospettirmi sarebbe un plauso universale. Superare, provare a superare, come sta succedendo, consuetudini, osservanze, mentalità di secoli è arduo».
Un incontro con papa Francesco?
«L’anno scorso. Quando uscì il numero 4000 di Civiltà cattolica. Di mille in mille, ogni quarantaquattro anni. A portare il numero 3000 al Papa, allora Montini, fui io, in veste di direttore. “Sono un superstite”, mi sono presentato a Francesco».
Come valuta Paolo VI?
«Nel Novecento, il Papa più grande, come santità di vita e come modernità di pensiero. Un pontificato crocifisso. Irto di ostacoli. Ha avuto il merito di salvaguardare il Concilio, di non spegnere il roveto ardente che è. Una Chiesa, la sua, nel mondo, ma non invasa dal mondo. La scelta religiosa come bussola».
Non così Giovanni Paolo II.
«Non così. Come sensibilità culturale era agli antipodi di Montini. Lui, militante contro il comunismo. Intendeva la Chiesa come una forza sociale. Riteneva che Paesi come la Polonia e l’Italia dovessero tutto alla Chiesa. E che quindi toccasse alla Chiesa trascinare lo Stato. A trionfare, l’unità politica dei cattolici».
I cattolici e la politica. A che punto siamo?
«Con la crisi delle ideologie è tramontato anche il partito cattolico. Francesco auspica la buona politica. A costruirla, uomini e donne di forti ideali e di solida professionalità. Evitando gli arroccamenti, andando nelle strade tutte. Via via modellando una società di “liberi e forti” di sturziana memoria, che non erano i cattolici, non solo i cattolici».
Il Partito democratico è nato con l’intenzione di armonizzare l’ispirazione cattolica, quella socialista e ulteriori ideologie laiche. Un progetto che si è arenato, non le pare?
«Sì, certo, e non poco hanno pesato il carattere e la forma mentis di Matteo Renzi. Ma il progetto non va accantonato».
I cattolici in politica. Quarant’anni fa l’assassinio di Aldo Moro, alfiere del cattolicesimo democratico. La sua lezione?
«La sua intuizione: proiettare nel futuro gli ideali cristiani tradotti laicamente. Una profezia».
La Chiesa non è oltremodo ancorata al qui e ora, sempre meno trascendentale?
«No, la Chiesa non può dimenticare il suo depositum. E non lo scorda. Dalla Pasqua di resurrezione al giorno dei defunti, vi è sicuramente modo di riflettere sulle cose ultime. E comunque: la vita eterna non ha inizio con la morte, comincia con la nostra vita. Giustizia, povertà, sofferenza. Sono questioni troppo trascurate in passato».
L’invito di Francesco, «Tornare al Vangelo», non mette in ombra la teologia?
«La teologia è necessaria. È la mente umana che si interroga su Dio. Ma c’è una differenza profonda che Francesco rischiara. Da un lato l’Occidente, la teologia come sistema logico e razionale, san Tommaso e la Scolastica. Dall’altro l’America Latina, dove, viceversa, ci si è affrancati dalle sovrastrutture, dove si pone il Vangelo a confronto con le situazioni concrete, cercando di capire che cosa fare. Con buona pace di chi a Roma, in vista della conferenza di Puebla, nel 1979, mi metteva in guardia da figure quali Helder Camara e Romero, apostrofati come comunisti. Li ho conosciuti, erano due santi, autentici teologi della liberazione, cioè teologia che libera, sottratta a qualsivoglia ipoteca ideologica, limpidamente evangelica».
Chissà che un giorno il telefono non squilli nella cella di padre Sorge. All’altro capo del filo, lui, Francesco, che gli comunica la volontà di crearlo cardinale. Unicuique suum…