La Stampa, 9 febbraio 2018
Il doping dilaga fra i ragazzini. Tre dilettanti su quattro usano medicinali
L’Italia è un Paese di «atleti medicalizzati», per dirla con l’ultimo dossier sulla diffusione del doping fra amatori e giovanissimi, le branche meno controllabili. Significa che tra i praticanti della domenica, anche chi non osa superare l’asticella della legge imbottendosi di veleni, difficilmente rinuncia all’aiutino sottoforma di farmaco o super-integratore: lo fa il 75% degli sportivi controllati dalla Commissione di vigilanza istituita al ministero della Salute, che lavora con il Coni e i carabinieri del Nas.
Non solo. Gli studi dell’ultimo biennio certificano come il 2017 abbia segnato una ripresa degli esiti «positivi» nei test compiuti dopo competizioni dilettantistiche; un’occhiata speciale va data alle nuove discipline che mescolano atletica e body-building (powerlifting, beachtrail, crossfit) e il Lazio s’impone come «laboratorio» del doping grezzo prodotto in farmacia su richieste mediche «irripetibili». Qui avviene infatti il 25% delle «preparazioni galeniche a base di agenti anabolizzanti», che i farmacisti possono legittimamente smerciare in presenza d’una prescrizione (quanto cristallina non lo possono sapere) comunicando poi numeri al ministero stesso. «Ormai – spiega Carlo Tranquilli, che è stato medico della Nazionale di calcio Under 21 e membro del pool ministeriale anti-doping – la difesa dei settori all’apparenza meno esposti dovrebbe essere una priorità e non si può passare solo dalla repressione. Devono cambiare mentalità allenatori, genitori, coloro che potrebbero infondere il concetto di meritocrazia in campo o in pista. Doparsi per ansia da prestazione e non per soldi come fa un professionista, è peggio». A metà luglio aveva definito «crimine contro l’umanità» la somministrazione di anabolizzanti a un ciclista quattordicenne, svelata da un controllo a sorpresa.
Vanno fissati alcuni paletti. I professionisti e in generale chi partecipa a competizioni strutturate, ai massimi livelli delle proprie federazioni, sono monitorati dalla Nado, organizzazione nazionale antidoping emanazione diretta dell’agenzia mondiale Wada. Nado ha eseguito nel 2016 (ultimo dato disponibile) 7790 controlli, con «esiti avversi» riscontrati nell’1,3% dei casi: il record degli accertamenti (2304, 0,2% positivi) è avvenuto nel calcio, 1014 (1,47% positivi) hanno riguardato il ciclismo. E però sono poco emblematici di quanto i farmaci proibiti abbiano contagiato coloro che non fanno sport per lavoro o quasi. Ecco allora che per orientarsi nel mare magnum dei comuni mortali bisogna rifarsi alle statistiche dell’Istituto superiore di Sanità, che fornisce il supporto scientifico alla commissione ministeriale, in pratica il vero servizio pubblico anti-doping. Primo elemento: nel 2014 erano stati eseguiti 1427 rilievi su competizioni amatoriali o giovanili, nel 2016 «solo» 806, mentre la proiezione sul primo semestre 2017 indica un lieve incremento. I costi di un esame variano fra i 500 e i 1000 euro, ed è un freno importante. Il consuntivo ci racconta che due anni fa il 2,8% degli atleti, dilettanti e in alcuni casi baby, è risultato positivo, mentre nei primi sei mesi dello scorso anno si è saliti al 3,3% (quasi l’1% ha meno di 19 anni, l’età media di chi sgarra s’attesta sui 35). È un’incidenza più che doppia rispetto ai professionisti o super-agonisti monitorati dalla Nado, ancorché su un campione inferiore. Restano gettonati gli antinfiammatori steroidei, gli anabolizzanti che accelerano lo sviluppo muscolare e i cosiddetti «agenti mascheranti», che consentono di perdere peso o di nascondere la presenza di altre sostanze. Ciclismo e culturismo le discipline a rischio fra quelle individuali, il rugby fra gli sport di squadra.
Ma chi lucra sul doping per amatori? «Piccoli gruppi – spiega una qualificata fonte dell’Arma – organizzazioni orizzontali e parcellizzate, non c’è alcuna filiera come nel narcotraffico. Perciò se nel caso dei professionisti l’investigazione si concentra sugli atleti poiché rischiano di falsare competizioni per il grande pubblico, sui dilettanti vale il ragionamento opposto: non si può pensare d’intervenire drasticamente a valle, con escalation di blitz e lo spauracchio di punizioni, sistemi ottimi per dissuadere chi dallo sport trae il proprio sostentamento. Risultati migliori si ottengono stroncando le piccole reti di pusher locali, le connivenze estemporanee con medici e farmacisti. Anche se a volte capita, dopo una contestazione, di sentirsi dire da un ragazzo di trent’anni che si è dopato per battere il suo amico». La strada resta abbastanza lunga.