La Stampa, 9 febbraio 2018
Tra i rifugiati in fuga dal regime. I disertori aspettano a Seul la cerimonia di apertura delle Olimpiadi
Ci sono dei coreani che oggi staranno con il telecomando in mano senza sapere se accendere la tv. Spingere il tasto del canale che trasmette la cerimonia è di per sé una scelta complicatissima, tormentata. Chi è scappato dal Nord, e ora è fiero del Sud in cui vive, aspettava questi Giochi per sentirsi finalmente cittadino del mondo e ora sintonizzarsi sulle Olimpiadi significa aprire la porta della memoria e tornare indietro. Scelta in pratica impossibile. Pensiero comunque doloroso.
Alla scuola di inglese per rifugiati di Seul, il Tknr, gli umori sono indefinibili. Sono giorni di pensieri pesanti e Casey Lartigue che gestisce queste classi di lingua e recupero anime è molto protettivo con gli alunni: «Non posso dire io come si sentono anche se si vede. Non credo che abbiano problemi a raccontare questo periodo strano ma trovare le parole giuste è un’impresa». Il registratore capta una sequenza di respiri importanti e lunghi, c’è chi non può dire il vero nome «ma nemmeno si può considerare falso, è come una nuova identità, la portano addosso. Per certi è una liberazione, per altri un limbo». I rifugiati raccontano la loro storia tutta d’un fiato, poi arriva la questione sfilata in comune e ognuno rallenta. Si blocca. Il Paese che ha deciso di unirsi in questa cerimonia è lo stesso che ha diviso per sempre le loro esistenze.
Yoojin Kim viene dall’estremo nord del Nord, era al liceo quando ha lasciato la patria: Cina, Vietnam, Laos, Thailandia e poi un’altra casa, con lo stesso nome e un’altra realtà: «Non riuscivo a inserirmi, ho iniziato ad andare in chiesa perché lì almeno c’è una comunità che ascolta. C’è così tanto da imparare per essere all’altezza di questa società». Per lei le trattative dietro i Cinque cerchi sono «un colpo basso. Kim sta sfruttando la visibilità e non capisco perché glielo lascino fare. Non voglio che il Sud diventi comunista. Non sapete cosa succede dove non decidi tu come ti vesti». Evidentemente è una paura reale, «vorrei riuscire a non guardare la sfilata con la bandiera neutrale e purtroppo non ne sarò capace. Sarà toccante, non brutto, però pericoloso. Sono confusa». E non c’è altro da spiegare.
Bong il Yoo è nato in un’area rurale, Hamkyoungbudo: la periferia dell’universo da cui è fuggito e che ora torna. In tv. «Ho visto le immagini dello sbarco dei nordcoreani, sono diventato nervoso eppure è un’inquietudine che voglio superare perché so che per quei ragazzi pronti a fare il giro dello stadio, per le giocatrici di hockey, sarà una grande opportunità». Non può che tifare per loro, per quanto male faccia, solo che una nostalgia mista a rancore lo agita. «Cerchiamo di essere razionali: nel 1988 il Nord ha boicottato ed era peggio, ora ci sono e ci si sente attaccati. Dovremo decidere che cosa è meglio».
Si può provare a farsi guidare dall’entusiasmo di Ken Eom che al Nord faceva il soldato e adesso ringhia davanti a un’ombra di dittatura. Lui l’ha lasciata passando per il fiume Aprok, un viaggio al limite: «Eppure mi godrò la Corea senza fratture, una Corea immaginaria che girerà sventolando una bandiera amica a PyeongChang. Mi ero scordato che una volta era un Paese solo. Forse c’è chi nemmeno lo sa». Rivedere la propaganda lo ha sconvolto, «stavo per urlare invece mi sono messo a ridere. Io so come si vive là, ci sono trecento persone che staranno per una settimana al Sud e non importa quanto sono stati indottrinati, io ero un militare, figlio del regime: loro torneranno a casa a svelare come si sta bene qui. La strategia del leader gli si ritorcerà contro». La sentenza è appagante.
Yoojin Kim se ne è andata solo nel 2014, uno strappo così fresco che quasi scotta. Si è convinta a espatriare perché voleva cantare, studiare musica, e pur di inseguire un sogno si è lasciata dietro l’intera famiglia. Vive da una zia di secondo grado, una volta arrivata a Seul è caduta in depressione: «Ero troppo diversa dagli altri, ho pensato che non mi sarei inserita mai. Ora va meglio, anche grazie al K-pop. E poi Kim vuole portare qui la sua banda...che antichità». Cambia umore dentro la stessa frase, guarderà l’apertura dei Giochi «perché lo spettacolo sarà fantastico, con gruppi fortissimi, altro che quella roba datata del Nord» però sull’uscita della Corea unita non garantisce: «La squadra sarà una sola e io mi sdoppierò. Metà felice e metà preoccupata, forse guarderò con un occhio coperto». Di nuovo divisa da un confine che segna differenze indelebili e risveglia ansie impossibili da tenere al guinzaglio. Di certo qualcuno spegnerà la tv.