il Giornale, 9 febbraio 2018
Quella guerra del gas che sembra una spy story
Li hanno battezzati Zohr, Leviathan e Aphrodite. Ma dietro quei nomi, vagamente mitologici, si nascondono interessi terribilmente materiali. Interessi capaci di scatenare conflitti commerciali, scontri internazionali e dispute territoriali. È la guerra del gas. Si combatte in tutto il sud est del Mediterraneo. E l’Italia c’è dentro fino al collo. Per capirlo bastano le dichiarazioni rilasciate dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e dal suo omologo turco Recep Tayyp Erdogan negli ultimi otto giorni. Il 31 gennaio durante l’inaugurazione di Zohr, il più importante giacimento di gas del Mediterraneo scoperto dall’Eni 190 chilometri a nord di Port Said, il presidente egiziano si lascia andare a significative dichiarazioni sul caso Giulio Regeni.
«Non smetteremo di cercare i criminali che hanno fatto questo», annuncia il presidente davanti all’ambasciatore italiano Giampaolo Cantini e all’amministratore delegato dell’Eni Claudio De Scalzi. E subito dopo aggiunge che chi ha ucciso il ricercatore italiano lo ha fatto «per rovinare i rapporti con l’Italia» e «per danneggiare l’Egitto». Le parole pronunciate nel secondo anniversario dell’assassinio ricalcano i sospetti nutriti dai nostri servizi di sicurezza sin dal 3 febbraio 2016 quando il corpo del ricercatore riemerge dal deserto in corrispondenza con la visita di una delegazione d’imprenditori guidati dall’allora ministro dell’economia Federica Guidi.
Ancor più esplicito nel delineare il ruolo dell’Italia su un altro fronte della sorda, ma brutale guerra del gas è Erdogan. «Abbiamo espresso le nostre preoccupazioni riguardo all’Eni per le iniziative nel Mediterraneo orientale», spiega lunedì scorso il presidente turco dopo il viaggio a Roma in cui ha incontrato il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il Presidente Sergio Mattarella. Al centro delle «preoccupazioni» di Erdogan vi sono le esplorazioni avviate al 50 per cento da Eni e Total in quel blocco 11 a sud di Cipro dove si celerebbe un giacimento gigante analogo a quello egiziano di Zohr. Per Erdogan, quelle trivellazioni rappresentano un attacco diretto alla sua politica energetica. Una politica che punta a premere, anche militarmente, su Nicosia per convincerla a dividere il gas del Mediterraneo con la parte di Cipro filo turca. Ovviamente nella parte filo-turca dell’isola resterebbe solo una minima parte di un gas indispensabile ad Ankara per liberarsi dalla dipendenza delle forniture russe ed evitare i diktat di Putin sul fronte siriano. Per completare lo scacchiere geopolitico su cui Italia si difende da pericolosi colpi bassi intessendo complesse e machiavelliche alleanze manca il giacimento israeliano di Leviathan. Posizionato tra le coste di Haifa e quelle del Libano questo giacimento promette di trasformare Israele in grande protagonista della competizione energetica. A questo punto possiamo ritornare a Zohr e capire perché la scoperta nel 2015 di questo giacimento con riserve stimate in 850 miliardi di metri cubi minacci di cambiare la geopolitica del Mediterraneo e metta l’Italia nel mirino. Consideriamo il caso Regeni.
I servizi inglesi sono fra i principali indiziati, non tanto per la sua uccisione quanto per lo spregiudicato utilizzo del suo ruolo di ricercatore prima, e del suo cadavere poi. Un utilizzo che ha innescato e alimentato la guerra per bande all’interno dei servizi egiziani. Non a caso i primi a sentirsi beffati per la scoperta di Zohr sono gli inglesi della Bp (British Petroleum) che – come ammesso da John Casson ambasciatore di Londra in Egitto – avevano investito 13 miliardi per trasformare l’Egitto in una superpotenza dell’energia. E così dopo i misteri dell’affare Regeni l’Eni ha pensato bene di cedere proprio alla Bp un dieci per cento delle azioni della concessione di Shouruk dove si trova il pozzo. E tanto per non sbagliare ne ha dato una 30 per cento anche a Rosneft. Una cessione indispensabile per mantenere salde le relazioni con una Russia che resta il nostro principale fornitore energetico e uno dei principali alleati dell’Egitto di Sisi. Ma l’altro fronte su cui si gioca la guerra dell’energia è quello dei gasdotti. L’Italia, o meglio l’Eni, riteneva di esser arrivata alla quadratura del cerchio discutendo un alleanza con Egitto, Israele, Grecia e Cipro per la costruzione di East Med, un gasdotto da sei miliardi per convogliare sia il gas di Leviathan, sia quelli dei pozzi greco-ciprioti verso l’Europa.
«L’Italia e l’Europa hanno interesse a garantirsi altre fonti di approvvigionamento di gas oltre a quelle proveniente dalla Russia o a quelle in corso di esaurimento dal Mare del Nord. Israele è un partner energetico serio e affidabile», dichiarava a marzo del 2017 il ministro dell’energia israeliano Yuval Steinitz al termine di una visita in Italia in cui aveva incontrato sia i vertici politici che quelli di una Snam coinvolta nel progetto del gasdotto. Ma su quel progetto si è allungata nei mesi successivi l’ombra di un’intesa per la costruzione di un gasdotto israeliano-turco capace di far arrivare in Europa solo il gas di Leviathan e tagliare fuori quello egiziano di Zohr.
Nonostante il baratro politico che li divide su questioni come la Palestina Erdogan e l’israeliano Steinitz hanno fatto intendere di non disdegnare un’intesa che consenta a Gerusalemme di convogliare verso l’Europa solamente il proprio gas tagliando fuori quello egiziano e alla Turchia di acquistarne una parte a prezzi molto più contenuti rispetto alla tariffe applicategli dalla Russia. Tutti giochi in cui l’Italia dopo la scoperta del gigante di Zohr è diventata, volente o nolente, un inevitabile bersaglio.