Il Messaggero, 9 febbraio 2018
Date soldi ad un artista e diventerà pericoloso. Intervista a Michael Connelly
Michael Connelly è uno scrittore da sessanta milioni di copie, pubblicato in 39 Paesi, che ha saputo dare nuovo slancio al classico hard boiled alla Chandler, con una serie di gialli (diventati una popolare serie tv) che hanno come protagonista il detective Hieronymus Bosch, figlio di una prostituta con un debole per il visionario pittore olandese. Un investigatore reattivo e anticonformista, chiamato da tutti soltanto Harry, che ritroviamo nell’ultimo libro appena tradotto per il pubblico italiano, Il lato oscuro dell’addio (Piemme, 372 pagine, 19,90 euro). Bosch è ormai un cane sciolto – non gli hanno perdonato di avere scaraventato attraverso una vetrata il suo supervisore – ma continua a esercitare la professione di poliziotto part-time, e a svolgere contemporaneamente il lavoro di investigatore privato. Un anziano magnate dell’industria bellica gli chiede di scoprire l’identità di un suo probabile erede. Un compito apparentemente semplice, ma che si rivelerà ad altissimo rischio e dagli sviluppi imprevedibili.
Mister Connelly. Nel suo ultimo thriller, Bosch si occupa di una storia che lo riporta agli anni del servizio militare in Vietnam. Ma non affronta mai a fondo i fantasmi del suo passato. Come mai?
«Credo che la ragione principale sia che la guerra del Vietnam non fa parte delle mie esperienze. All’epoca ero troppo giovane. Così, cerco di non sfruttarla troppo, per non dipingerla con i toni sbagliati. Ho raccontato il passato di Harry Bosch a piccole dosi, in parecchi libri. E poiché voglio che queste sue esperienze sembrino reali, ho fatto molta ricerca, parlando con i veterani, usando le loro storie – di uno di loro in particolare. In questo libro tutto ciò che accade ai marinai della nave ospedale Uss Sanctuary è realmente avvenuto».
Dai suoi romanzi traspare disapprovazione nei confronti delle politiche di Trump. Cosa pensa del muro che vuole costruire al confine con il Messico?
«Si tratta di un brutto simbolo: come deterrente, non penso che possa funzionare. Lo scrivo nei miei libri: la gente arriva in questo Paese comunque, legalmente o illegalmente, spinta da una grande speranza in una vita migliore. Una motivazione forte, che non potrà certo essere fermata da un muro alto sei metri. Dovremmo costruire porte, non muri».
Lei sembra avere imparato la lezione di Chandler, che invitava a rompere le regole dell’intreccio, come quella che recita: «La soluzione, una volta rivelata, deve sembrare inevitabile».
«Non ci dovrebbero essere regole di alcun tipo, quando si scrivono romanzi polizieschi – o qualsiasi altro tipo di storia. Il narratore deve seguire il suo istinto e alla fine essere soddisfatto del risultato. Anche se per farlo deve rompere delle regole».
Ci può parlare della sua passione per Chandler?
«Una volta ho affittato l’appartamento che era servito come set per la versione cinematografica, diretta da Robert Altman, di The Long Goodbye. Speravo mi aiutasse a scrivere. Ero molto ispirato dal personaggio di Philip Marlowe, un classico investigatore fuori dagli schemi, un archetipo molto potente; così ho cercato di fare di Harry Bosch un outsider, che avesse però allo stesso tempo un lavoro da insider, di detective della polizia».
Lei è stato un cronista di nera. Le è servito?
«Quando sono andato a lavorare per un giornale di Fort Lauderdale ho cominciato a seguire molti delitti, a conoscere gli investigatori e il loro modo di approcciarsi alla vita».
Un personaggio del suo romanzo dice: «Date soldi a un artista e diventerà pericoloso». Vale lo stesso per lei?
«La maggioranza degli artisti deve costantemente preoccuparsi di trovare i mezzi per sopravvivere, e contemporaneamente continuare a creare. Questo ha un effetto sulla loro arte. Una volta che questo stato di necessità sparisce, qualsiasi risultato diventa a portata di mano. Personalmente vorrei fare un po’ di più. Ma non ho mai voluto che i miei libri venissero visti come dichiarazioni politiche. Se posso infilare in un romanzo un paio di opinioni, sono felice di farlo».
Si è ispirato, per il nome del suo protagonista, al grande Hyeronimus Bosch. Come mai? È appassionato di arte?
«Mio padre era un artista frustrato ma dotato di molto talento. Credo sia questa l’origine del mio interesse. In fondo anche la pittura è una forma di storytelling, e c’è sempre connessione tra scrittura, arte visuale e musica».
A cosa sta lavorando adesso?
«Sto già scrivendo un nuovo romanzo, e lavorando alla serie televisiva».
Qualcuno ha scritto che ha messo in Bosch molto del suo carattere.
«Non da subito, ma lentamente, nel corso del tempo, io e lui abbiamo cominciato a... condividere cose. In primo luogo la paternità, poi la stessa visione del mondo: ottimista ma anche, in definitiva, cinica».
Se lei fosse un detective, quale grande cold case del passato vorrebbe risolvere? L’assassinio di John Kennedy?
«No, credo che vorrei scoprire chi ha ucciso Elizabeth Short, la Dalia Nera».
Ha un rituale quando scrive? Prepara prima un canovaccio, una sceneggiatura?
«Sono troppo indaffarato per ritagliarmi dei rituali. Scrivo ogni volta che posso. Mi basta avere un laptop, per cominciare. In aereo, in treno, in macchina. Mai, comunque, seduto alla scrivania. Inoltre, non scrivo mai prima il soggetto di una storia. Seguo i miei pensieri, le mie idee e quando trovo una buona soluzione per concludere l’intreccio, comincio a lavorare. Ho bisogno di vedere la luce alla fine del tunnel».
Dove trova l’ispirazione?
«Passo un sacco di tempo con veri detective che mi raccontano molte buone storie e che mi ispirano sempre».
C’è speranza che Bosch venga a investigare in Italia?
«Chi può dirlo? Ora che non sta lavorando per la polizia di Los Angeles è libero di andare dove vuole come investigatore privato. Forse qualcuno in Italia potrebbe assumerlo e assegnargli un’inchiesta!»