la Repubblica, 9 febbraio 2018
«La fiction migliore? I disastri di famiglia». Intervista a Nina Stibbe
Londra Lui lascia lei, per mettersi con un altro uomo di città.
Per tutta risposta lei lascia Londra, con prole, animali e bagagli, trasferendosi a vivere in campagna. Dove le figlie cercano ostinatamente di accoppiarla con un nuovo lui: campagnolo. Comincia come una tragedia, diventa una commedia, finisce sfiorando la love story. Un uomo al timone è il primo romanzo di Nina Stibbe, ma segue il successo del suo libro precedente, Love, Nina, un ironico memoir in cui l’autrice raccontava la propria esperienza di cameriera presso uno degli indirizzi più letterari d’Inghilterra, la casa della celebre e temuta direttrice della prestigiosissima London Review of Books, diventato rapidamente un bestseller mondiale e poi una mini-serie televisiva della Bbc, scritta da Nick Hornby, con Helena Bonham Carter nel ruolo della protagonista. Come esordio era stato niente male, ma la seconda prova, concorda unanime la critica inglese, è ancora meglio della prima: «Non ricordo niente che mi abbia fatto ridere così tanto», scrive il Guardian. Come il memoriale sulle sue pulizie nelle stanze della famosa editor, anche questo pesca molto nella vita privata di questa scrittrice, arrivata al successo a 55 anni.
«Meglio tardi che mai», commenta, scoppiando a ridere.È vero che pure il romanzo è autobiografico, basato sulle disavventure della sua famiglia?
«Sì, è vero. Ho cominciato a scriverlo all’università: un professore ci chiese un testo autobiografico e io raccontai la storia di mio padre che lascia mia madre per un altro uomo, con tutto quello che successe poi. In realtà non pensavo che l’avrei mai pubblicato. Temevo che ai miei non avrebbe fatto molto piacere. Invece quando l’hanno letto l’hanno trovato buffo e a tratti perfino commovente, sicché mi sono messa a cercare un editore».
Romanzare il divorzio dei genitori è un antidoto al trauma?
«Alcune delle mie ansie da donna adulta hanno certamente le radici nella rottura fra i miei. Ma quando accadde ero bambina, avevo tre sorelle con cui formavo una squadra molto unita e una mamma decisamente anticonvenzionale, che amava il rock, la poesia e la recitazione: qualche volta si dimenticava di darci la cena per portarci a teatro. Se la vita è un romanzo, sono tentata di concludere, forse la prendi meno sul serio e riesci a trovare il lato comico anche in quello che può apparire tragico».
Nella Londra odierna un uomo che lascia la moglie per un altro uomo non è scioccante, ma il suo libro è ambientato in un’Inghilterra ancora ben lontana dal matrimonio fra persone dello stesso sesso.
«Anche mio padre, non soltanto mia madre, era un tipo all’avanguardia rispetto ai tempi.
Peraltro non avrebbe voluto divorziare: fosse stato per lui, si sarebbe tenuto la mamma e il suo amante gay, frequentando con disinvoltura entrambi. Del resto in seguito, fra un rapporto omosessuale e l’altro, si è sposato altre due volte con donne. Per fortuna il suo comportamento, che allora sembrava rivoluzionario, ora è accettato come la norma o quasi».
Sarà una risata che ci salverà, in qualunque situazione: è questo il messaggio della storia?
«Ridere, o meglio sorridere, ha salvato sicuramente la mia famiglia: siamo tutti sopravvissuti a un decennio difficile trovando il lato comico in quello che accadeva. Ma non è sempre possibile prenderla così. Ammetto di essere stata privilegiata perché l’umorismo mi ha circondata fin da piccola, nei libri, negli show, nei film e nell’atmosfera familiare. E più tardi nella mia vita sono stati proprio gli autori umoristici a influenzarmi più di tutti gli altri, da Sue Townsend, che riesce ad essere ironica e sentimentale nelle storie su Adrian Mole, all’intramontabile P. G.
Wodehouse, che per me rimane un modello».
È il punto di vista di un bambino a rendere questa storia così saggia e allo stesso tempo divertente?
«I bambini sono creature molto intelligenti e intuitive. Scherzo spesso che ho raggiunto il mio picco intellettivo a dieci anni e da allora è stato un progressivo declino. Ma è una battuta solo a metà».
Confessi: si offrì di fare la cameriera a casa della direttrice della “London Review of Books” per spiarla e scrivere un libro sugli intellettuali che la frequentavano, da Alan Bennett a Stephen Frears?
«Non era nei miei piani, ma è finita per andare così! Però all’inizio erano solo lettere scritte a mia sorella per raccontarle in che strana casa ero capitata. È diventato un libro solo in seguito».
Che effetto fa avere successo dopo i cinquant’anni?
«Splendido. Naturalmente non ti dà alla testa come può succedere a vent’anni. La mia vita non è cambiata: vivo sempre in Cornovaglia, ci pensano due figli adolescenti e un cane a tenermi con i piedi per terra. Ma è anche una meravigliosa iniezione di fiducia, specie per quelle che una volta si definivano donne di mezza età, come io sono ora. Lo dico sempre alle mie coetanee quando vado in giro a presentare il libro: dietro l’angolo può nascondersi una nuova avventura. Anche quando non te l’aspetti per niente».