la Repubblica, 9 febbraio 2018
Islamofobia, suicidio collettivo
Per uno Stato a modesta legittimazione, l’integrazione non troppo soft degli immigrati, musulmani o meno, è imperativa. Altrimenti ci ridurremo a campo di esercitazione delle influenze altrui. Non solo dei nostri alleati e partner, abituati a considerarci terra nullius. Anche degli Stati e dei regimi da cui provengono i migranti, che intendono serbare influenza nelle rispettive diaspore e/o avanzare le rispettive agende geopolitiche. Come fanno, in competizione, Marocco e Arabia Saudita. Ovvero il paese dotato della massima diaspora islamica in Italia e il capofila del wahhabismo, con la sua tuttora considerevole potenza finanziaria – grazie alla quale compra beni materiali, decisori e comunicatori ovunque convenga – e i suoi jihadisti at large. Che cosa fa l’Italia per proteggere i propri interessi, dunque per integrare gli stranieri di cui abbiamo necessità per ragioni demografiche e di welfare?
Lo Stato non ha strategia. Le iniziative di alcuni suoi esponenti locali (qualche sindaco), talvolta centrali (ministero dell’Interno, cui soprattutto si deve la drastica riduzione dei flussi via ex Libia, per ora ottenuta in negoziati informali con i «guardiani del deserto»), e di molti cittadini di buona volontà non sono inscritte in un piano di lungo periodo. Assenti ingiustificati il governo nella sua collegialità e i partiti che a parole aprono all’integrazione, salvo non darvi seguito perché temono di perdere consenso a favore di chi denuncia l’«invasione». Di qui l’accantonamento del blandissimo aggiornamento del cosiddetto ius soli, di fatto ius scholae per figli e nipoti degli immigrati che ambirebbero a diventare italiani.
Qualche progresso abbiamo compiuto nel rapporto con gli immigrati provenienti dai paesi di prevalente cultura musulmana.
Dal “Piano nazionale d’integrazione dei titolari di protezione internazionale”, che sconta esplicitamente l’impossibilità dell’assimilazione, rifiuta la logica comunitarista dunque multiculturale, e punta sull’integrazione graduale del singolo.
Fino all’ambizioso “Patto nazionale per un Islam italiano”, prodromo di un’intesa con le più visibili organizzazioni dei musulmani in Italia, nella speranza forse ottimistica che siano sufficientemente rappresentative e coese per influire sui quasi due milioni – le cifre ufficiose li riducono a un milione e mezzo circa – di aderenti alla fede coranica attivi nel nostro territorio.
Il tempo stringe. Entro dieci anni avremo in Italia una pletorica, adulta seconda generazione di origine straniera ma socializzata (?) da noi. E una terza in fieri. Alcuni saranno cittadini della Repubblica a pieno titolo. Altri, temiamo non pochissimi, resteranno ai margini della vita civile e fuori dai radar dello Stato, in una società non immune dal bacillo islamofobo, dalle pulsioni xenofobe e dalla propaganda jihadista. Per una nazione inconsapevole del tempo e dello spazio in cui vive, in declino demografico, incapace di selezionare gli immigrati ma disposta a veder partire i suoi giovani più preparati, rinunciare all’integrazione equivale a vegetare. Se non a sparire. Qui si fanno i nuovi italiani o si muore.
L’autore è direttore di Limes, docente alla Luiss di Roma e all’Università San Raffaele di Milano. Ha appena pubblicato per Le Monnier il manuale “Storia contemporanea. Dal mondo europeo al mondo senza centro” con Adriano Roccucci.