la Repubblica, 9 febbraio 2018
Non solo Acea. Ecco chi resiste contro il Jobs Act
ROMA La Cgil li ha battezzati fin dall’inizio “accordi di contrasto al Jobs Act”. E c’è chi si spinge ad evocare il mitico valore della “resistenza”. Sta di fatto che il contratto integrativo di Acea riapre il fronte dei sabotaggi della riforma renziana del lavoro, che negli ultimi due anni ha prodotto una sequela di intese “in deroga” tra sindacato e imprenditori.
Almeno un centinaio. E in alcuni casi con l’avallo delle stesse organizzazioni territoriali di Confindustria. «Ma se ci sono accordi di questo tipo passati impunemente, si è trattato solo di un errore – avverte il vicepresidente di Confindustria, Vincenzo Stirpe – e comunque più che una resistenza diffusa, mi sembrano casi particolari di aziende e situazioni particolari».
Stirpe non arretra di un centimetro neanche se gli si fa osservare come accordi integrativi che smontano il Jobs Act li abbiano siglati pure aziende metalmeccaniche di primo piano come le emiliane Lamborghini e Ducati (gruppo Audi) : «Ma lì governa un regime comunista dice scherzando, ma non troppo e comunque sono deroghe parziali. La linea di Confindustria è che le leggi vanno rispettate e chi non lo fa va fuori dal nostro network. Quindi Acea andrà fuori, anche perché insieme al sindacato ha fatto una trattativa clandestina e ha usato soldi pubblici (l’azienda è del Comune di Roma, ndr) per pagare l’adesione a Confindustria salvo poi sottrarsi a questo patrocinio».
Eppure, nei distretti industriali metalmeccanici del Nord il “vecchio” articolo 18 è diventato una specie di benefit per attrarre manodopera qualificata. E Qualche mese fa la Cgil ha anche realizzato un censimento degli “accordi di contrasto al Jobs Act”, una resistenza che si è risolta soprattutto nel mantenimento delle tutele dell’articolo 18 sui licenziamenti: le tre fattispecie principali (affrontate sia in intese territoriali o aziendali che in lettere individuali di assunzione) sono rappresentate dalle garanzie occupazionali nei cambi di appalto, nelle cessioni/affitto di rami d’azienda, nelle stabilizzazioni di contratti a termine o nelle nuove assunzioni.
I settori coinvolti sono, in ordine di peso percentuale, i servizi, la sanità, i trasporti, le pulizie, l’informatica, l’agroalimentare, il turismo, l’editoria, l’abbigliamento, i rifiuti, la scuola, l’impiantistica, la cultura e il demanio. Qualche esempio concreto di accordo anti Jobs Act: il cambio di appalto per il servizio di vigilanza delle isole ecologiche a Trani; la Franco Tosi Meccanica di Legnano, dove è stata garantita una forma di tutela alternativa all’applicazione del Jobs Act; gli stabilimenti della multinazionale svizzera della farmaceutica Novartis; l’accordo sindacati-Fipe sui subentri in concessioni autostradali per i quali resta l’articolo 18; il call center di Hera, la multiutility del Comune di Bologna, per i cui lavoratori oltre all’articolo 18 ci sono deroghe anche alle norme sui controlli a distanza dei lavoratori. Ancora tutele in deroga su licenziamenti videosorveglianza e mansioni alla Bormioli Rocco di Fidenza (settore vetro); sempre deroghe agli articoli del Jobs Act sui controlli a distanza alla Toyota di Bologna, alla Site (ancora Bologna) e alla Mycis Company (cosmetici marchio Pupa). In quest’ultimo caso con firma e timbro della Confindustria di Lecco e Sondrio.
«Fin dall’approvazione del Jobs Act – spiega Tania Scacchetti, responsabile del mercato del lavoro per la Cgil – abbiamo seguito due linee di contrasto alla legge: quella giuridica con il referendum e il ricorso alla Corte europea, e appunto quella degli accordi aziendali. Confindustria ha sempre posto il vincolo della legge, ma questo non ha impedito che le parti, imprese comprese, mantenessero le vecchie norme. È stato un modo per rifiutare la logica del ricatto e della paura nei confronti dei lavoratori e anche per ribadire il valore straordinario della contrattazione». Un valore che secondo Maurizio Landini, segretario confederale Cgil con delega all’industria, può servire a perseguire anche un altro obiettivo emerso in questi giorni con l’accordo tedesco sulle 28 ore: «Il tema della redistribuzione dell’orario va preso assolutamente in mano e l’accordo siglato a suo tempo all’Electrolux dimostra che si può fare. Come nel caso di Acea, sono intese che migliorano i diritti delle persone».