la Repubblica, 9 febbraio 2018
Le banche tornano ai profitti nel 2017 utili per 14 miliardi
MILANO Le grandi banche italiane nell’annata 2017, ufficialmente horribilis, hanno rimesso in quarta la macchina dei profitti. Una decina di istituti hanno già diffuso i preliminari oggi tocca a Mps, Ubi, Carige, Mediobanca – dove si notano forti incrementi dell’utile netto, con un saldo parziale di 13,7 miliardi di euro. Soprattutto, tornano a fiorire i dividendi agli azionisti: un altro segnale di salute, che in caso contrario l’occhiuta vigilanza Bce esorterebbe a dirottare gli utili sulle debolezze dei bilanci. Niente a che fare con il 2016, anno in cui le prime otto banche nazionali persero 15 miliardi precipitando dai 5 di utili registrati nel 2015, pesò l’incidenza fatale di rettifiche su crediti da una quindicina di miliardi.
Non è un ritorno al passato, comunque: i fattori della redditività 2017 sono diversi, e le pulizie contabili per alcuni ( Creval, Carige ma anche Ubi, Banco Bpm, Bper, Bari, e diverse Bcc) proseguono. Tuttavia i segnali positivi inducono tanti investitori stranieri – noncuranti del voto con una legge elettorale bislacca che produce un quadro partitico più che bislacco – da gennaio sostengono le quotazioni di Piazza Affari, specie bancarie. Nell’Europa a tasso zero sono ferme anche le crescite del margine di interesse sui prestiti (arretra per quasi tutti, a partire da Intesa Sanpaolo e Unicredit), mentre salgono con forza le commissioni, trainate dal buon andamento di Piazza Affari (+ 22% l’anno scorso) che spinge i clienti a investire nei fondi.
Dove si forma il cambio di segno dei bilanci bancari, però, è sul lato costi. Quelli operativi, a partire dai costi del personale, sono stati sforbiciati di un altro 5-10%, con la chiusura di filiali e i pensionamenti. La leva dei costi, però, è azionata da un decennio: in cui scompaiono circa mille sportelli l’anno e ancor più bancari. È il costo del credito il nuovo pilastro del ritorno alla redditività. L’esempio più calzante è Unicredit: l’anno scorso perse quasi 12 miliardi per la rude strategia del nuovo amministratore delegato Jean Pierre Mustier di vendere a basso prezzo 18 miliardi di euro di sofferenze, e così fermare la spirale viziosa tra accantonamenti e fragilità patrimoniale. Ne venne la dolorosa richiesta di risorse per 13 miliardi agli azionisti: ma oggi si può dire che quell’operazione ha riportato in asse la banca, che ha archiviato 5,5 miliardi di utile netto 2017, frutto in buona parte del “risparmio” di 9,6 miliardi di rettifiche su crediti. Unicredit è in buona compagnia: i dati pubblicati finora mostrano per tutte le banche, dove più dove meno, un forte taglio delle riserve messe a coprire sofferenze e incagli.
Aveva buon gioco ieri il banchiere francese a parlare di «forte dinamica commerciale in tutto il gruppo», come mostrano le commissioni, salite del 7,1% a 6,7 miliardi, con un’accelerazione nel quarto trimestre che ha portato il parziale sopra le stime degli operatori; il ribaltone non sarebbe stato possibile senza far calare il costo del rischio creditizio da 93 a 58 punti base in un colpo. «Sono molto orgoglioso di quello che abbiamo realizzato in questi 12 mesi – ha aggiunto l’ad -. Abbiamo completato con successo il primo anno del piano Transform 2019 e abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi». La Borsa ha premiato ancora l’azione (+2,1% in una seduta nera, dopo la promozione di tutti i grandi uffici studi).
Quel che Unicredit e Mps fecero nel 2017 – cedere molte delle loro sofferenze colmando la falla con nuovo capitale – altri istituti lo hanno fatto o faranno con più gradualità. Come Intesa Sanpaolo, appena convertita alla cessione “grande” di Npl (per una dozzina di miliardi) e della loro piattaforma di gestione. La trattativa, da chiudere in marzo, è con un fondo svedese e uno cinese: ma il prezzo in ballo sarebbe più che doppio rispetto a quello della transazione Fino di Unicredit, tanto che l’impatto sul patrimonio Intesa sarà minimo. Così la politica di ricchi dividendi potrà continuare: nel 2017, detratto il contributo statale da 3,5 miliardi per l’acquisizione di Vicenza e Veneto banca, la banca di Carlo Messina ha lasciato ai soci quasi tutti gli utili, contro un 20% di Unicredit.
La doppia recessione italiana aveva centrato in pieno le banche, quintuplicando i crediti problematici fino a 350 miliardi lordi, e rendendole vulnerabili in Borsa e agli occhi del regolatore. Così da un paio d’anni, e con i forconi puntati di Bce e mercati, i banchieri italiani hanno aggredito il cattivo credito, incrementandone le coperture e con ciò agevolando vendite in tranche per un centinaio di miliardi (anche le garanzie statali Gacs hanno aiutato). Il rafforzamento dell’economia, poi, ha migliorato i tassi di recupero dei vecchi crediti come il flusso dei nuovi deteriorati, che sulle stime Bankitalia a settembre 2017 è sceso ai livelli pre crisi (1,7% sugli attivi), con tasso di sofferenze calato al 7,8% sugli attivi. L’obiettivo che Francoforte insegue però è il 5%: la pulizia continuerà.