la Repubblica, 9 febbraio 2018
Ecco come nascono i ghetti dei rifugiati
ROMA Lungo la vecchia pista polverosa di quello che durante la seconda guerra mondiale era un aeroporto militare, qualcuno ha piantato dei paletti come a delimitare un fazzoletto di terra. Sono i migranti ospiti del Cara, quelli in attesa che la loro richiesta di asilo venga esaminata. Sanno che, nel momento in cui otterranno la protezione internazionale, usciranno dal circuito dell’accoglienza. Per questo si “prenotano” un fazzoletto di terra dove, con quattro pezzi di lamiera, costruire la loro baracca. È così che a Borgo Mezzanone, a soli 15 chilometri da Foggia, la “favela” che è sorta a fianco è ormai almeno due volte più grande del centro di accoglienza: baracche e container, acqua e luce e nient’ altro. Ci vivono in più di mille lì dentro, uomini, donne, bambini in condizioni disumane, di forte marginalità sociale, senza alcun accesso a cure mediche e ai servizi sociali. Tutti migranti regolari, richiedenti asilo e rifugiati, dunque tutta gente che – per intenderci – ha pieno diritto a stare in Italia.
Dalla Sicilia al Trentino, in queste condizioni vivono almeno 10.000 persone. Cifra per difetto quella contenuta nel secondo rapporto redatto da Medici senza frontiere che, a due anni di distanza, ha mappato i cosiddetti “insediamenti informali” nei quali vivono non solo i migranti identificati, nell’immaginario collettivo, come coloro che approdano in Italia sui barconi, ma migliaia di persone, anche tante famiglie italiane o gente che sta nel nostro Paese da tempo ed è rimasta senza un tetto. C’è chi vive così da più di dieci anni e c’è chi non avrebbe mai pensato di ritrovarsi in un posto così. Come ad esempio Raphael, 53 anni, venezuelano, che a casa sua faceva il professore universitario di antropologia e il sindacalista che difendeva i campesinos, e nel 2014, mentre stava rientrando da una conferenza in Iran, fu avvertito da un amico che era stato emesso un ordine di cattura nei suoi confronti. E così, sceso a Fiumicino, è rimasto a Roma e da quattro anni vive con due gatti in una stanza nell’edificio di viale delle Province occupato da 150 persone senza casa come lui. Ora che la commissione territoriale gli ha pure negato l’asilo ha fatto ricorso al giudice ma è disperato: «Io davvero non capisco. In Venezuela non posso tornare, la mia famiglia ormai è l’Italia. Io vorrei dare un contributo qui, vorrei solo essere un cittadino normale. Sono una persona per bene, mi hanno invitato anche a La Sapienza a tenere un seminario, vorrei tornare a insegnare e invece sono costretto a fare lavoretti da elettricista.
Molta gente è convinta che in posti come questo vivono solo criminali, ma qui c’è tanta gente che lavora, magari in nero, ma lavora e a fianco a me vivono anche due migranti del Camerun. Sa cosa facevano nel loro paese?
Gli ingegneri».
Raphael è quasi un fortunato, almeno sta tra quattro mura anche se un bagno non ce l’ha.
Ma la mappa dell’Italia dei ghetti vede solo poco più della metà dei suoi abitanti che è riuscita a trovare riparo in edifici abbandonati o occupati. Per il resto quasi 3.000 persone vivono in rifugi di fortuna all’aperto, altrettanto tra baracche, container, tende e casolari. E più della metà di questi insediamenti è totalmente priva di energia elettrica ed acqua. «Una situazione desolante, che non ha bisogno di strumentalizzazioni e inapplicabili slogan, ma di soluzioni reali, a partire da un più adeguato modello di accoglienza e da serie politiche di integrazione, a livello nazionale, regionale e locale», dice Giuseppe De Mola, curatore del rapporto.
Il Lazio e Roma soprattutto, con 3500 persone che vivono inben dieci edifici occupati, ospita la maggior parte di questo popolo di “invisibili” che trova consistenti concentrazioni, oltre che nel Foggiano, soprattutto a Torino, Palermo e Reggio Calabria.
Mentre grandi città come Firenze e Napoli sono riuscite a contenere la presenza dei rifugiati senza tetto.
Molto diverso il modo con cui le amministrazioni locali affrontano questa emergenza. Lì dove è prevalsa la risposta degli sgomberi coatti – osserva Gabriele Eminente, direttore di Msf Italia – «abbiamo riscontrato la tendenza alla parcellizzazione degli insediamenti in luoghi sempre più pericolosi».
Ci sono poi Comuni, come Bolzano con la sua “circolare Critelli”, dove l’ordine è quello di non accogliere nessuno che non sia mandato dal Viminale e di smantellare qualsiasi tipo di insediamento. E i rifugiati o i migranti bloccati alle frontiere che la mattina abbandonano per qualche ora i giacigli sotto i ponti o lungo le rive del fiume la sera trovano grate e filo spinato. La storia del povero Abden, morto a Bolzano a 13 anni senza cure per le fratture riportate dalla caduta della sua sedia a rotelle, è già stata dimenticata.