Corriere della Sera, 9 febbraio 2018
Da Pirelli a Ynap, i grandi marchi finiti in mani estere
E pensare che dieci anni fa eravamo tra i Paesi PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), acronimo dispregiativo (Pig in inglese significa maiale) usato per le economie europee più in difficoltà. Passato remoto, almeno per gli investitori stranieri che si sono portati a casa di recente diversi marchi del «made in Italy» mettendo sul piatto numeri a nove cifre. Nel 2017 sono state firmate in Italia 255 acquisizioni da parte di stranieri, un numero più che raddoppiato in quattro anni, per un valore di 20 miliardi di euro. Italo è, in questo inizio 2018, già la seconda grande operazione internazionale. La prima, il mese scorso, l’ha messa a segno Richemont, già azionista di maggioranza di Ynap (ex Yoox di Federico Marchetti) ma che ha lanciato un’offerta pubblica di acquisto totalitaria sul gruppo di 2,7 miliardi di euro. Secondo un’analisi di Fineurop Soditic per «L’Economia» il valore pagato in media per un’impresa in Italia lo scorso anno è stato di 9,4 volte l’ebitda, il più alto dal 2007 (quando era di 7,7 volte) e quasi il 50% in più rispetto alle 6,6 volte del 2010, ai tempi dei PIGS e ai tempi di Parmalat quando il gruppo di Collecchio fu comprato da Lactalis.
Due anni fa il colpo dei cinesi su una delle icone del «made in italy» nel mondo, Pirelli, per cui Chem-China ha sborsato 7 miliardi di dollari. Cinesi anche gli investitori che nel 2014 hanno comprato Krizia, il noto brand di abbigliamento fondato nel 1956 da Mariuccia Mandelli. E hanno ormai passaporto cinese anche diverse società di calcio, dal Milan all’Inter acquistata nel 2016 dal colosso Suning di Zhang Jindong che ha pagato circa 525 milioni per il 70% del club. Due mesi fa anche le Cartiere di Fabriano sono state cedute, questa volta a Bain Capital, società di investimento americana che per 650 milioni di euro si è presa l’intero gruppo Fedrigoni. Un capitolo a parte merita l’affaire Mediaset-Vivendi con lo sfiorato acquisto della pay tv Premium, ora in balia di ricorsi e udienze al Tar rinviate. La stessa Vivendi è dal 2016 azionista di riferimento di Tim con una quota di circa il 24%.
«Nonostante un sentimento di cautela legato alla stabilità del quadro politico, alle pressioni sul sistema bancario e alla tassazione elevata, gli investitori sono tornati in Italia» ha scritto Ernst Young in un recente rapporto sull’attrattività italiana. I PIGS sono davvero lontani.