Corriere della Sera, 9 febbraio 2018
Genitori dopati
L’indagine della Procura di Lucca sulla morte del ciclista dilettante Linas Rumsas ci racconta che per dopare come ronzini da corsa dei ragazzi in età da brufoli non basta un allenatore invasato. E non bastano, per quanto aiutino, un farmacista che fornisce la mercanzia e un medico e un avvocato che insegnano a eludere controlli e indagini. Non basta nemmeno che il proprietario della squadra adeschi le vittime con le consuete lusinghe: il doping fa bene e lo usano tutti; se non lo usi anche tu, sei destinato a faticare per nulla. Perché i ragazzi si convincano che la scorciatoia è un’autostrada senza neppure le buche, servono i genitori adatti. Non mi riferisco soltanto al padre dello scomparso, un ex ciclista lituano squalificato per doping. Penso al padre e alla madre del proprietario della squadra, entrambi anziani, che conservavano i flaconi di Epo nel frigo di casa e impilavano sugli scaffali della dispensa gli aghi e i cateteri da infilare nelle vene dei ragazzini. E penso ai genitori di quella gioventù dopata – una squadra intera – che per la Procura non solo sapevano, ma incoraggiavano. E oggi, anziché denunciare, tacciono.
Il desiderio di vedere tuo figlio primeggiare sugli altri a qualsiasi costo è una forma grave di narcisismo, socialmente accettata nel sacro nome della competitività. Ma quando diventa più importante della sua stessa vita, si trasforma in doping che dà al cervello.