Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  febbraio 08 Giovedì calendario

Calamity Jane: intervista a Dorothea Wierer

PYEONGCHANG L’occhio grigio da gatta, infilato dentro un mirino protetto dal paraocchi tricolore, manda lampi di rimmel. «Tanta gente aspetta solo che io dica qualcosa di sbagliato». Non è mai successo e non succederà nemmeno nel gelo di quest’Olimpiade azzurra che si avvia sparando: «Io, altoatesina, non gareggerei mai per l’Austria. Come lo devo dire? Sono italianaaaa». Ricevuto, Calamity Jane. È Dorothea Wierer, una vittoria in Coppa e cinque podi stagionali, sabato nella sprint del biathlon, la nostra prima vera occasione di medaglia. 
Dorothea, a 27 anni questa è la sua Olimpiade.
«Sì, non mi nascondo. A Sochi ero una ragazzina, non avevo podi individuali alle spalle, ero in Russia per fare esperienza. In quattro anni è cambiato tutto».
Cosa, per esempio?
«Tutti si aspettano qualcosa da me. Non voglio mettermi troppe pressioni ma, se sto bene, il risultato arriva».
Al poligono è diventata quasi infallibile.
«Il tiro è un fattore mentale: più sei tranquilla, meglio spari. In autunno ho cambiato un pezzo di canna del fucile, lì dove esce il colpo: sembra una sciocchezza invece per noi biathleti è fondamentale. Il problema di Pyeongchang...».
Lasci indovinare: è il freddo.
«Speriamo che si scaldi sennò sparare al gelo è un guaio: con le mani ghiacciate perdi sensibilità e, quindi, stabilità. E per di più in Corea non c’è nessuna cultura dello sci nordico».
Ma il tiro perfetto esiste?
«Certo che sì: quando non devi pensarci, ti fermi e, pam, spari. Quando è tutto automatico. Quello per me è il momento di adrenalina più alto, la prova suprema».
E se in quel momento entra un pensiero?
«Eh succede... Però è più facile che entrino pensieri strani o che non c’entrano con la gara mentre scio, non al poligono. Il poligono è meditazione».
Parla con il fucile come i piloti con la macchina?
«No! E nemmeno me lo porto in vacanza. Tutto ciò che riguarda la carriera sportiva (pettorali, coppe, medaglie, trofei) è a casa di mia mamma. Io nel tempo libero non voglio pensare al biathlon».
Una donna che imbraccia il fucile non perde femminilità? 
«Io ad Anterselva sono cresciuta così. La mia non è un’arma per andare in guerra e poi io la ingentilisco con un cuoricino e la bandiera italiana».
Ha deciso il colore delle unghie per il debutto in Corea?
«Neutre. Lo smalto non dura tre settimane di trasferta».
La erre moscia, il viso da modella, il successo social e i risultati in pista: ma lei è personaggio Dorothea?
«Oddio, in Italia non lo so. Nell’Europa del nord, dove il biathlon ha centomila spettatori, mi conoscono tutti».
Le hanno più chiesto di posare per Playboy?
«No, non sono pentita e sarà no per tutta la vita: nuda mai!».
E a un reality parteciperebbe, archiviata Pyeongchang?
«Se fosse interessante... Sull’isola dei famosi potrei abbronzarmi... Ma sono sposata e non voglio fare figuracce».
Meglio pensare ad allargare la famiglia, allora.
«Se diventassi mamma, non tornerei al biathlon. Nel 2020 ci sono i Mondiali a Anterselva, casa mia. Fino a lì ci arrivo di sicuro, poi basta: avrò trent’anni».
Quanti sacrifici ha fatto per il bronzo nella staffetta mista di Sochi e tutto il resto, Pyeongchang inclusa?
«Mai fatto una vita normale, ho pochissimo tempo libero però sciare e sparare mi piace molto e quando arrivano i risultati alle cose brutte non pensi più».